Il caso “Christa Wanninger”: il mistero dell’uomo in blu

 

christa

di Olga Merli

Le ante semichiuse del portone di via Emilia 81, a Roma, incorniciano lo spicchio deserto di un androne che appare immutato, se non fosse che, ormai, sono passati quasi cinquant’anni. Mezzo secolo, intrappolato  tra le mura di quel palazzo, insieme al suo  terribile segreto. L’identità del feroce assassino che, il 2 maggio 1963, uscì, senza fretta, da quello stesso portone, lasciandosi alle spalle, il corpo martoriato da dodici   coltellate di Christa Wanninger, la ragazza tedesca,  di appena ventidue anni, da poco nella capitale.

Il “Caso Christa”, come venne battezzato dalle cronache dell’epoca, doveva questo suo appellativo, al famigerato  “Caso Rosemarie”, il misterioso omicidio di una  giovane donna, avvenuto, anni prima ad Amburgo, e che, per molto tempo, riempì le pagine dei rotocalchi d’oltralpe. Proprio  come accadde in Italia, dove i particolari dell’efferato delitto della sfortunata Christa, ebbero un eco così  lungo,  da superare  di molto i confini dell’estate del 1963, alimentando,  a tinte forti,  la cronaca del misfatto, anche  negli  anni successivi.

E spesso, come accade in Italia, il filo di quell’intricata matassa, che  sintetizza  la cronistoria di un omicidio, si aggroviglia inevitabilmente, inglobando  ipotesi, testimonianze, congetture  investigative e fatti, che si perdono, inesorabili, all’interno di un ginepraio senza via d’uscita. Oppure si trasformano , come un plastico, riadattandosi  alle necessità del momento,  uniformandosi  ai tracciati delle volontà inquirenti,  o magari, si dissolvono,  svanendo nell’ estesa necropoli delle verità scomode.

Il Caso Christa, rappresenta in pieno tutto questo, mostrando senza remore, i limiti e le ambiguità di certe oggettività processuali. Ma, nello stesso tempo, rivela anche la determinazione  e l’ostinazione   di chi insegue  la verità, nonostante tutto.

Roma, 2 maggio 1963
La Capitale era immersa nel torpore del primo pomeriggio; un  anticipo d’estate che si insinuava tra le  vie del centro, senza risparmiare quel portone di legno massiccio. Al civico 81 di via Emilia, il sole illuminò, per l’ultima volta, i capelli biondi della donna che entrava nel palazzo.

christaGiovane e provocante, Christa Wanninger, si avvicinò all’ascensore; le sue generose rotondità, fasciate dall’abito leggero. Nata in Baviera, nel mese di dicembre del 1940, era approdata da poco tempo a Roma, lasciandosi alle spalle qualche piccola esperienza nel settore cinematografico, ambiva alla carriera di  modella, e, quel pomeriggio di maggio,  si stava recando a trovare una sua connazionale, Gerda Hoddap, che alloggiava al quarto piano dello stabile.

Le urla strazianti della donna, almeno secondo la sua testimonianza, attirarono l’attenzione della portinaia, Francesca Barbonetti e di alcuni inquilini del palazzo, che le avvertirono nitidamente. Provenivano dai uno dei piani alti dell’edificio; non ci volle molto tempo per identificarlo. Il sangue imbrattava il marmo del pavimento, delimitando il corpo di Christa, che  era riverso a terra, trafitto da dodici coltellate, inferte con violenza, secondo le indiscrezioni della perizia autoptica.

Le forze dell’ordine non tardarono ad arrivare; un brulicare di sirene tra gli sguardi incuriositi dei passanti che assediavano l’androne dello stabile. Il cadavere della Wanninger, ancora caldo, goffamente, protetto da occhi indiscreti;  al centro di un intreccio di voci, supposizioni e domande. Chi aveva pugnalato, con ferocia e per dodici volte, il corpo della giovane aspirante modella?

Le indicazioni della portiera, tra le prime ad essere ascoltata, tracciavano la sagoma di un individuo di circa trent’anni, altezza intorno al metro e settanta, con un naso particolarmente vistoso e vestito in maniera impeccabile,  uscito con molta calma dall’edificio, poco prima delle tre, di quell’assolato pomeriggio primaverile. Era l’assassino, l’uomo in blu , che la custode ed altri testimoni,  videro mentre scendeva le scale, lasciandosi alle spalle l’ultimo fotogramma di quel massacro?

Il Commissario Migliorini, bussò ripetutamente, al portone di Gerda Hoddap, fino a quando,  la donna, apparve sull’uscio; non si era accorta di nulla, a suo dire. Dormiva, mentre la sua amica Christia, veniva pugnalata a pochi passi dal suo appartamento. La posizione della Hoddap, vagliata più volte dagli inquirenti, non convinse mai totalmente gli investigatori, lasciando aperto un ventaglio di quesiti che restarono senza risposta.

Christa, quel pomeriggio, era entrata nell’appartamento dell’amica? Davvero i due presunti ingressi di quell’alloggio non vennero perquisiti a dovere e in maniera tempestiva? Oppure,  effettivamente, Gerda, non udì la donna né bussare alla sua porta né, poco dopo, le sue grida acute, mentre il pugnale dell’assassino la violava senza pietà?

L’esistenza  della modella, così come il suo alloggio e le sue corpose agende telefoniche,  vennero setacciate alla ricerca di indizi che potessero, per lo meno identificare, un movente plausibile. Decine e decine gli interrogatori di conoscenti, amici, ex fidanzati, habitué di quel mondo che Christa sognava di padroneggiare; a due passi da via Emilia, dal luogo in cui aveva trovato la morte,  gli agognati  tentacoli ammaliatori della “dolce vita” romana, con le sue strade, i suoi locali storici, le frequenti e libertine  kermesse.

Il 1963 terminò,  senza gettare luce sui molti interrogativi che orbitavano intorno a quell’omicidio e al cadavere di Christa che reclamava giustizia. L’anno successivo, a dare nuovo input all’indagine, fu l’inaspettata e misteriosa  telefonata giunta al giornalista Maurizio Mengoni; una voce maschile e anonima, dichiarò di avere importanti rivelazioni da fare su quel delitto, in cambio di cinque milioni di lire.

Gli inquirenti, arrivarono a identificare la cabina di Piazza San Silvestro, a Roma, dalla quale provenivano le telefonate ed in seguito a dare un volto a quella voce che aveva dichiarato di essere il fratello dell’assassino e di avere in mano i suoi diari dove esprimeva l’intenzione di uccidere ancora. Era di Guido Pierri quella voce; trentadue anni, pittore.

Interrogato,  cambiò molte volte versione, fornendo particolari, a volte inverosimili, altre volte abbastanza vicini alla realtà. Nella sua casa, vennero sequestrati numerosi album, raffiguranti corpi di donne seviziate e la descrizione del delitto di via Emilia. Erano solo frutto della sua fervida fantasia, come si giustificò in seguito?

Dimostrava di sapere qualcosa sulla terribile fine della Wanninger anche se la sua posizione non venne mai del tutto chiarita, né dai  processi che lo videro protagonista né dalle perizie psichiatriche a cui venne sottoposto. Anche se rilasciato in un primo momento, l’ombra del sospetto sulla sua ambigua personalità e sulle sue frequentazioni, lo accompagnarono fino al 1971, quando Renzo Mambrini, ex maresciallo dei carabinieri, che in seguito si scoprì  legato ad un alto esponente dei Servizi Segreti, lo accusò nuovamente.

Gli elementi da lui raccolti, confluirono in un libro – inchiesta che egli pubblico nel 1973 dal titolo rappresentativo, “Christa”; Come nella migliore pellicola gialla, l’anno successivo, l’ex funzionario dei carabinieri perì in un incidente stradale nei pressi di Roma, portandosi i suoi segreti nella tomba.

pittore

Nel maggio del 1977, il pittore di origini carraresi, Guido Pierri, venne arrestato con l’accusa di essere l’autore del delitto ma il 10 gennaio dell’anno seguente, il processo di primo grado accolse le motivazioni della difesa e l’uomo venne assolto. La sentenza venne completamente ribaltata, sette anni dopo; infatti la Corte d’Appello lo ritenne colpevole di quell’omicidio. Il verdetto venne confermato dalla Cassazione nel novembre del 1988, ritenendolo, però, incapace di intendere e di volere.

Erano davvero fondate  le certezze sulla colpevolezza di Pierri,  tanto da giustificare una  condanna? La teoria del delitto d’autore, che vedeva uno squilibrato vestire i panni dell’assassino, era davvero plausibile? Le voci sulle presunte frequentazioni della Wanninger e le sue relazioni spericolate con personaggi di spicco del “bel mondo” romano, potevano giustificare un delitto così efferato? Di quali scottanti verità, dovrebbe essere stata depositaria volontariamente o involontariamente Christa per motivare dodici feroci fendenti che l’ hanno strappato alla vita, ai suoi anni  migliori?