L’omicidio di Lidia Macchi assomiglia parecchio a quello di Christa Wanninger

C’è una donna che grida”. Un urlo, colpi di coltello, dei testimoni che vedono l’assassino, una poesia che è una confessione, una persona condannata decenni dopo. Nei giorni scorsi abbiamo letto e sentito che Stefano Binda è stato condannato all’ergastolo, in Assise, per l’omicidio di Lidia Macchi, avvenuto nel 1987 in un bosco a poca distanza del Lago Maggiore. Solo che in realtà non stiamo scrivendo di lui.

christa wanningerParliamo invece di un caso di tanto tempo fa: l’omicidio della tedesca Christa Wanninger, avvenuto nel 1963 a Roma. Un delitto in piena Dolce Vita. Sembra assurdo, ma i due omicidi hanno in comune molti elementi. Torniamo allora al 1963 e precisamente al 2 maggio. In una palazzo di via Emilia 81, Christa, tedesca di 23  anni e belle speranze, sale al 4° piano per andare a trovare la sua amica Gerda Hodapp. Sono quasi le 14.30. Non arriverà mai a premere quel campanello. Sette coltellate e crolla sul pianerottolo davanti la porta dell’amica, che impiegherà la bellezza di venti minuti ad aprire ai condomini e alla polizia (e finendo arrestata per reticenza). Gli inquilini del palazzo, tra cui anche la mamma del regista Alessandro Blasetti, sentono un grido che li fa schizzare fuori dai propri appartamenti, appena in tempo per vedere un individuo che scende con calma olimpica le scale. La portiera lo incrocia e fa appena in tempo a domandargli che succede e lui, impassibile nel suo completo blu: “C’è una donna che grida”. Eh.

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Sette persone faranno un identikit abbastanza preciso di quel volto che gli si parò davanti da lì al pianterreno. Non basterà a prenderloChrista muore mentre viene trasportata all’ospedale. Le indagini piano piano si arenano, passa un anno e una voce telefona al quotidiano “Momento Sera”: offre, in cambio di 5 milioni di lire, il nome dell’assassino. Il telefonista anonimo viene facilmente fermato dai carabinieri: è Guido Pierri (nella foto in alto), ha 32 anni, è un ragazzo problematico a cui viene trovato un lungo coltello, un abito blu, un diario e una rassomiglianza impressionante con quell’identikit.

Dopo qualche indagine, però, il giudice si fa l’idea che Pierri sia il solito mitomane e lo rimette in libertà, restituendogli incredibilmente il diario, dove c’era una inquietante poesia scritta, come si leggeva dall’orario segnato accanto, nemmeno mezz’ora dopo la morte della ragazza. E che sembrava fare riferimento proprio a quel delitto.

Passano gli anni, tanti, e grazie alla tenacia di un ex maresciallo dei carabinieri, Renzo Mambrini, ma anche della sorella della Wanninger, viene riaperto il caso: proprio su quel Pierri che nel frattempo era diventato pittore in Toscana. Bisognerà arrivare addirittura al 1988 -25 anni dopo il delitto, un record- per avere la sentenza definitiva che condanna Pierri per l’omicidio ma, vista la sua totale incapacità d’intendere e di volere all’epoca dei fatti e la non pericolosità allo stato attuale, resterà libero. Ovviamente lui ha sempre negato di essere l’assassino, ma in “Morte a Via Veneto“, edito da Sovera, chi scrive -insieme ad Armando Palmegiani- ha spiegato chiaramente perché era proprio e solo Pierri il colpevole di quel delitto apparentemente senza senso.

Un bosco non è certo un condominio, ma quante somiglianze ci sono tra i due casi? Molte. Sembra quasi un passaggio di testimone. Lidia Macchi, quel 5 gennaio 1987, va a trovare anche lei un’amica, stavolta all’ospedale di Cittiglio: ed è dopo questa visita che si perdono le sue tracce. Verrà ritrovata uccisa, anche lei a coltellate (29) nel bosco di Sass Pinì (nella foto sotto), parzialmente coperto di cartoni. Anche qui abbiamo una poesia, inviata alla famiglia nei giorni dei funerale, il 10 gennaio successivo, e che può essere letta come un riferimento all’assassinio, anche se non in maniera esplicita. Anche qui abbiamo un sospettato problematico. E’ un uomo di Brebbia (Varese), disoccupato e con problemi di droga. Si chiama Stefano Binda, ciellino come Lidia, e suo ex compagno di liceo. Patrizia Bianchi, un’altra ragazza dello stesso gruppo di CL, si presenterà molti anni dopo alla polizia per dire che la grafia di quella lettera è uguale a quella dell’uomo, di cui ha diverse lettere scritte all’epoca. Una perizia lo conferma. Queste, invece, le due lettere a confronto.

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Binda viene arrestato a gennaio 2016: secondo il Gip sa troppi particolari che in quei giorni non erano stati resi noti. E anche qui spunta, più che un diario, un’agenda: del 1987, cui mancano le pagine dei giorni in cui Lidia fu uccisa. Anche stavolta, come per Pierri che descriveva tutte le volte che pedinava una donna fin sull’uscio di casa, una frase compromettente: “Stefano è un barbaro assassino”. Una differenza tra i due delitti c’è: Pierri fu visto nel palazzo, mentre nessuno vide insieme quella sera Lidia e Stefano, il quale ha sempre sostenuto di essere stato a una gita di CL. Bastano questi indizi per condannare?

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E il movente? Se Pierri –spiegarono gli psichiatri- aveva bisogno di uccidere per dimostrare a se stesso di valere qualcosa, di essere un vero uomo, di non soccombere sempre alla sua fragilità, capire qualcosa del movente di Binda (per ora condannato solo dalla Corte d’Assise di Varese, all’ergastolo) è più difficile. Siamo nel campo delle ipotesi. Lidia aveva avuto un rapporto sessuale prima di morire, non si sa se consenziente o meno. Forse Binda se ne è pentito subito dopo, forse ha visto Lidia –scrive l’ordinanza di custodia cautelare- come “causa di un rapporto sessuale vissuto come tradimento del proprio ossessivo e delirante credo religioso, tradimento da purificarsi con la morte”. Forse l’ha avvertito come qualcosa di sporco di cui incolpare lei, Lidia, che andava quindi uccisa, come l’agnello sacrificale della poesia. Ma sono solo ipotesi.

Passano gli anni, i due omicidi si assomigliano molto: Lidia sarà più fortunata di Christa?

di Fabio Sanvitale e Armando Palmegiani