Detective allo sbaraglio, tra mito e realtà: 10 cose da sapere se volete fare l’investigatore privato

 

topolinodi Alessandro Cascio direzione@calasandra.it

Ex investigatore privato – socio fondatore APIS

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Investigatore privato: una professione molto lontana dai film americani, intrigante ma anche ricca di significati stereotipati. Ho svolto questo lavoro per quindici anni e da venticinque mi occupo di sicurezza e quando ne parlo mi viene in mente mio padre, che ha esercitato questa professione atipica, fino alla sua prematura scomparsa. Egli – formidabile detective – mi sconsigliava di avviarmi a questa attività perché ci era dentro da 30 anni e la sapeva lunga! La realtà dei fatti – più tardi – l’avrebbe dimostrato, anzi urlato.

Quando annunciai di voler intraprendere questa strada mi lasciò fare, anche perché – oramai – ero grandicello. Quindi non ebbi alcuna raccomandazione o incoraggiamento, ero il figlio di uno che faceva quel lavoro, certo. Venni selezionato, in verità, perché il mio CV era stato giudicato singolare. Avevo – infatti – maturato un’esperienza decennale quale operatore della sicurezza nell’ambito degli armamenti militari ed ero anche un insegnante federale di arti marziali cinesi. Bastò per mettermi alla prova.  Intanto, favoleggiavo – come tutti gli ingenui neofiti di questa professione – sugli incarichi rocamboleschi che mi avrebbero affidato.

Il primo servizio non fu nulla di avventuroso, ore ed ore di appostamento. Ne seguirono molti altri, altrettanto affini e monotoni. Alla fine ci si occupava quasi esclusivamente di infedeltà ed il fatturato e la sopravvivenza di quasi tutte le agenzie dipendeva e dipende unicamente da questa tipologia di servizi. Non smisi più, nonostante tutto, anche perché trovai il modo di uscire dai confini castranti delle indagini sui tradimenti.

Ecco quello che ho imparato:

1. Quando scegli di diventare un investigatore privato non hai ancora la piena consapevolezza che dovrai fare due lavori insieme, il detective e l’imprenditore, in una folle commistione di ruoli per una serie di italiane ragioni, seppure questa professione – nel prepotente immaginario collettivo – riscuote l’invidia e l’ammirazione dei più. Dirigere un’agenzia investigativa può risultare fatale se non si hanno – innanzitutto – doti imprenditoriali (e capitali). Ecco perché molti falliscono.

2. In tanti sono falsamente convinti che dentro di loro si nasconde un provetto investigatore e si sentono capacissimi di risolvere anche i casi più difficili, ma vi assicuro che non è  così. Eppure a molti sembra assai facile. Attraverso un annuncio, tempo fa, convocammo soggetti convinti di avere fiuto. Si candidarono un centinaio di persone pronte a mettersi alla prova. Assegnammo loro un’indagine elementare, eppure ne rimasero solo tre/quattro, tutti in panne.

3. Troppe agenzie. Ognuna con il suo nome e con il suo orgoglio. Alla guida investigatori superbi e – spesso – ignoranti, non tutti s’intende. Ancorati morbosamente al ruolo che li definisce investigatori privati e che tali – nella maggior parte dei casi – non sono, si danno all’antitaccheggio, oppure si dedicano alla sicurezza di basso profilo, piuttosto di chiudere. E quello faranno sempre, alternando qualche banale caso di corna.

4. Le agenzie investigative funzionavano e rendevano ai tempi in cui mio padre faceva questo lavoro, ovvero negli anni ’70 e ’80. Una fortunatissima generazione di investigatori, senza particolari qualifiche, esercitavano in un periodo di espansione economica; ai tempi in cui esisteva ancora la separazione per colpa, la famiglia era un valore e l’infedeltà provata pesava come un macigno. Gli stessi tempi in cui la tecnologia investigativa quasi non esisteva, come neppure – per fortuna – la globalizzazione o l’euro. Giocando a fare gli investigatori – all’epoca – si sono costruiti dei piccoli imperi. Oggi – con lo stesso gioco – in molti si sono rovinati. E il futuro non sembra più prospero del presente.

5. Certe facoltà universitarie sono tra i nemici più temibili delle agenzie di investigazione. Detti atenei, oltre a non preparare operativamente a questa professione, si considerano la grande panacea degli investigatori del futuro e – sprezzanti della crisi nera – con orba incoerenza prevedono e promettono sviluppi inverosimili in questo settore oramai in coma, sfornando ogni anno migliaia di giovani illusi che infoltiranno le statistiche relative ai disoccupati.

6. Le associazioni di categoria, rimaste inermi perché l’unico cambiamento epocale inerente il settore l’ha preteso e ottenuto l’Europa, hanno contribuito – con il loro parassitismo – al declino, altrimenti non si dibatterebbero ancora oggi gli stessi problemi di cui si lamentava mio padre venti o trent’anni or sono. Sembra che si preoccupino solo di imporre e vendere corsi di formazione…

7. Mi sentivo un fuorilegge o – forse – lo ero davvero! Già, sembra incredibile, ma l’investigatore privato italiano è costretto a commettere una fiumana di reati perché non riesce a ricavare alcuna informazione se non violando i codici. Non per colpa sua, ma a causa di una legge obsoleta e retriva, risalente agli anni ’30, che prevede una licenza ma non concede strumenti di nessun tipo che possano mettere il detective nella condizione di lavorare nella legalità. Per comprendere quanto sia inutile e beffarda la licenza concessa agli investigatori privati italiani basterebbe leggere le note prescrizionali a tergo di molte autorizzazioni, limitazione superata solo nel 2010 per merito dei decreti attuativi. Nella mia – così come in quella di moltissimi altri colleghi – per esempio – c’era scritto che era vietato il pedinamento! Un’assurdità se si pensa che l’atto del pedinamento non è – in realtà – proibito da nessuna norma ed è considerato giuridicamente lecito come più volte affermato dalla Corte di Cassazione. Cosa diversa è – invece – persistere nell’azione del pedinamento sino a sconfinare nella molestia…

8. Credevo che la concorrenza tra le agenzie investigative, di per sé fisiologica, si dovesse misurare attraverso le capacità del suo titolare e del suo staff. Alla sana lotta per il guadagno si sostituisce – invece – una furibonda battaglia a colpi di pubblicità grottesche per assicurarsi un po’ di auto-glorificazione e niente più. Una spirale perversa in cui si mescolano professionisti e stregoni che ha richiamato più volte l’attenzione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.

9. Fare l’investigatore privato non è redditizio. Un’idea presto confermata dai conti del commercialista e del consulente del lavoro e dallo spettro delle spese fisse. L’affitto dell’ufficio, assurdamente obbligatorio, le tasse, oltre quell’invenzione infernale chiamata INPS, ti sgretolano le finanze. E certi versamenti li devi fare anche se non produci reddito, se non fatturi un euro. L’agenzia, a causa dei volumi di lavoro altalenanti, si trasforma – spesso – in una maledetta macchina mangiasoldi.

10. Falso che l’investigatore possa servirsi di mezzi e strumenti tecnologici modernissimi e all’avanguardia. Siamo al cospetto di una licenza che non conferisce salvacondotti di alcun tipo, salvo la possibilità di collocare un GPS nell’auto dell’ignaro soggetto da monitorare per pedinarlo dall’ufficio. L’uso di altri congegni come microspie e simili, anche se facilmente reperibili in internet, sono vietati dalla legge ed il loro utilizzo comporta la commissione di reati gravi. Anche fasulla l’idea che l’investigatore privato italiano si occupi di incarichi e intrighi di respiro internazionale, datosi che il limite territoriale in cui esercitava la professione – fino al 2008 – era esclusivamente nell’ambito della provincia in cui gli veniva rilasciata la licenza, senza possibilità di sconfinare se non attraverso articolate procedure. Oggi, alleluia, può lavorare su tutto il territorio nazionale.

CONCLUSIONI
Non capisco come mai tra i 3.000 investigatori privati (non esistono stime ufficiali sul numero preciso degli Sherlock Holmes italiani), nonostante, pare, siano tutti inferociti, non ci sia nessuno che sia ancora andato a scuotere i cancelli di Montecitorio. Forse i politici li hanno sedati con i loro dictatus, o forse sono solo rassegnati e smarriti. La corda della mia sopportazione, invece, si spezzò e – alla fine del 2009 – decisi di rinunciare ad una licenza che era una burla.

La categoria degli investigatori privati resta nel mio cuore, sia chiaro: non per nulla ho fondato due associazioni con lo scopo di farne le veci e rivendicarne i diritti.

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