Luciano Luberti: la vera storia del “Boia di Albenga”

lubertidi Fabio Sanvitale direzione@calasandra.it

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Luciano Luberti, una vita da assassino. Incredibile, la storia di quest’uomo: prima torturatore al servizio dei nazisti e poi autore di un omicidio che sembra uscito da un libro, negli anni Settanta. Una storia che inizia nel 1943, dopo l’8 settembre, quando la sua ammirazione per i nazisti lo spinge ad arruolarsi volontario nella Wehrmacht. D’altronde, parla tedesco. Lo mandano alla Feldgendarmerie di Albenga, in Liguria, dove ancor oggi non l’hanno dimenticato. I partigiani lo chiameranno il “Boia di Albenga” e passa alla storia con questo nome sinistro. Un motivo c’è: il caporalmaggiore Luberti ha bisogno di esprimere il suo sadismo e in quella posizione è addirittura legittimato a farlo (il suo ritratto psicologico lo fa Chiara Camerani, leggi QUI). Zelante, lucido, privo di umanità, si abbatte su uomini, donne e anziani. Spara, tortura, taglia, strappa, guida rappresaglie. L’interrogatorio dei sospettati è la sua specialità: per avere certezza dell’esito, per umiliare meglio, Luberti li conduce coprendo di sangue la vittima di fronte alle sue donne: la moglie, le figlie. Per mesi cava occhi, stupra, dà fondo al peggio della sua anima nera.

Anni dopo, Lorenzo Spizzichino racconterà un episodio che la dice lunga su Luberti. Suo zio Umberto, ebreo, era andato a scuola con Lui alle elementari, a Roma. Continueranno a frequentarsi anche dopo, anche da grandi. All’amico Luciano si rivolge quindi Umberto per essere aiutato ad espatriare, quando i tempi si fanno più duri. Lui gli dà appuntamento all’incrocio tra viale Manzoni e via Emanuele Filiberto. Umberto ci va, sperando di riuscire a risolvere il suo problema: ma al posto dell’amico trova gli agenti delle SS che lo arrestano e lo portano in via Tasso. Da lì passerà ad Auschwitz, dove morirà nell’agosto del 1944, tatuato col numero 180110. Questo era Luberti, uno a cui ti saresti rifiutato di dare la mano.

Ma la fine della guerra gli toglie il divertimento ed il lavoro. Lo catturano nel 1946, mentre – fedele al personaggio, pieno di spirito d’avventura- tentava di fuggire per arruolarsi nella Legione Straniera. Fu proprio un poliziotto cui aveva torturato ed ucciso il fratello, a riconoscerlo. Ironia della sorte. Quell’uomo era entrato apposta in polizia per attenderlo al valico di Ventimiglia: sapeva che prima o poi sarebbe passato di lì.

Quante furono le sue vittime? Secondo lo storico Gentile, ottanta. Al processo del dopoguerra fu però accusato di cinquantanove tra torture ed omicidi (lui stesso riconosceva che furono di più): se la cavò, inspiegabilmente, con sette anni di reclusione, che non scontò mai tutti a causa di tre indulti ed un condono.

Negli anni Cinquanta lo ritroviamo a Roma, sposato con figli, dove va forte nel settore pubblicitario ed ha una storia con la sua segretaria, Carla. Ad un certo punto però molla e fonda una casa editrice di stampo fascista, l’ ”Organizzazione Editoriale Luberti”. Con questo marchio scrive, sotto lo pseudonimo di Max Trevisant, capolavori come “Furia”, in cui racconta in forma romanzata la sua esperienza di guerra. Difficile dire dove finisca l’autobiografia e cominci il romanzo, o viceversa; ma la storia della vittima costretta a sposarlo, invece, è sicuramente vera. Quello che colpisce – il libro è oggi una chicca per collezionisti – è il clima di sadismo, il piacere delle violenza che vi si respira, della sopraffazione, la morbosità auto-compiaciuta. Ma sono passati tanti anni! E chi si ricorda più del Boia?

lubertiEppure, Luberti è sempre lo stesso. Ormai uomo di mezza età, ma smanioso di un palcoscenico, fa la sua trionfale rentrée nella cronaca nera il 2 aprile 1970, quando la polizia fa irruzione in un appartamento di via Pallavicini a Roma. E’ stato lui stesso a mandarceli, con una lettera scritta –ovviamente – direttamente al Questore. In camera da letto, abbandonato da due mesi e mezzo, c’è il cadavere di Carla, Carla Gruber, la compagna di Luberti,  ormai in piena putrefazione, disteso e composto come in una camera ardente. Intorno, fiori ormai secchi, deodoranti, flaconi vuoti di disinfettanti con i quali vanamente il Boia  ha tentato di coprire la decomposizione. La porta della stanza è sigillata.

La Gruber indossa un baby-doll, aperto sul petto. Dirà l’autopsia che la morte è avvenuta la bellezza di due mesi prima (verso il 18-19 gennaio, si ricostruirà poi). Un colpo di pistola al cuore, esploso durante il pesante sonno dato da un barbiturico, ha fatto tutto. La pistola è lì, sul comodino.

Ritrovano l’auto di Luberti vicino Termini, ma lui è svanito. E continuerà ad esserlo per un pezzo. Dalla latitanza rilascia interviste piene di smargiassate, dice che il bossolo con cui Carla è morta è il suo portafortuna, dice che si è rifatto il viso e non lo si può più riconoscere. E’ falso. Lo beccano due anni dopo, nel 1972. Troppo impegnato a costruire la propria, grandiosa, immagine di sé, Luberti viene arrestato a Portici, vicino Napoli. Si è ridotto a fare il venditore di riviste porno, ma ha armi e bombe a mano in camera. E una gran barba. Altri fascisti devono averlo aiutato nella fuga, d’altronde non è a Portici per caso…

Lo processano. Omicidio? Quale omicidio?  Macchè, dice, è stata una specie di pietosa eutanasia verso l’amatissima Carla, malata di  tubercolosi e schiava di medicinali e barbiturici (e tutto questo era vero).

Ma perché quella veglia? Follia? Aveva avuto bisogno di tempo per fare chissà cosa?

Gli mollano ventidue anni, ma in appello i camerati tornano a dargli una mano: arriva come manna dal cielo la perizia psichiatrica del criminologo Aldo Semerari, uno che faceva perizie false per la camorra, molto legato con la peggior destra.  Lo dichiara incapace di intendere e di volere, la pena diventa di ventiquattro mesi nel manicomio criminale di Aversa. Luberti non perde tempo ed evade. Lo riprendono subito. Alla fine se la cava con cinque di carcere, a conti fatti.

Esce e si trasferisce a Padova, dove si laurea in giurisprudenza. Finisce in una storia di droga. Muore, senza una lira, nel dicembre del 2002. Un tumore se lo porta via. Alle pareti le foto in divisa tedesca, di lui con il mitra, di Carla nuda. I ricordi di tanti e tanti anni prima.

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