La strage di via Caravaggio: le piste investigative (prima parte)

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di Daniele Spisso direzione@calasandra.it

Come per ogni caso di omicidio, il miglior modo per scoprire l’identità dell’assassino è sempre quello di indagare a 360 gradi sulla vita privata delle vittime. Cercare quasi di conoscere nei minimi dettagli la storia delle persone che sono rimaste coinvolte in un crimine come vittime, ricostruendo le loro vite e le loro frequentazioni private. E’ quello che purtroppo all’epoca fu fatto  molto superficialmente da parte degli inquirenti ma è quello che cercheremo di fare adesso in maniera più attenta, basandoci sui dati che ci sono stati trasmessi in questi 36 anni dai documenti investigativi e giudiziari.

Domenico Santangelo è certamente il personaggio più complesso di questa vicenda, se è vero (come è vero) che una sentenza giudiziaria lo ha definito una persona con alle spalle “50 anni di vita oscura”. Santangelo è un ex capitano di lungo corso che dopo aver lasciato il servizio trova un impiego nelle Imprese Lauro. Un impiego che dura a lungo, ben 12 anni per l’esattezza. Fin quando, nel 1971, è costretto a lasciare per il sospetto d’aver sottratto 28 milioni di lire dalle casse dell’impresa.

E’ da quel momento che la sua vita diventa un po’ più misteriosa: negli ultimi 4 anni, Domenico Santangelo va avanti senza una occupazione fissa e con guadagni poco definiti (un fatto che diventa in seguito causa di scontro con la sua seconda moglie, Gemma Cenname). Ogni tanto ricorre ai prestiti di sua figlia Angela – come risulta da alcuni appunti scritti dalla ragazza e trovati in via Caravaggio al momento della scoperta della strage – e talvolta impegna gioielli appartenuti alla prima moglie, Eleonora Lo Cascio (come testimoniò all’epoca Federico Corrado, un commerciante suo amico). Il suo ultimo impiego risale al settembre del 1975, quando assume un incarico di rappresentanza per una ditta di insetticidi e detersivi nella zona di Avellino e provincia. Una ditta, con sede centrale in Germania, della quale la Procura di Napoli non riesce a trovare il nome.

Alcune voci dicevano che Santangelo si guadagnava da vivere facendo ogni tanto l’informatore della polizia. In casa sua, a quanto si è saputo, aveva una pistola. Una vita davvero enigmatica, quella di Domenico Santangelo. Fondate o infondate che fossero alcune informazioni che circolavano in giro su di lui.

E’ una persona però anche abbastanza benestante in apparenza, visto che comunque la moglie e la figlia avevano un impiego: i soldi sembrano non mancare mai, nonostante i suoi alti e i bassi; ha un ampio appartamento di sua proprietà; sia lui, che la seconda moglie, che la figlia possono permettersi un’auto ciascuno (una Lancia Fulvia coupè lui, una Fiat 600 la seconda moglie, una A112 Angela). Una vita un po’ misteriosa che però non fornisce sostanzialmente nessuna traccia da seguire per spiegare un delitto brutale come questo.

Una prima pista da seguire si materializza quando due sottoufficiali dei carabinieri, il maresciallo Giovanni Mastroianni e il vice brigadiere Giulio Mancuso, preparano un rapporto investigativo sui trascorsi privati di Domenico Santangelo; trascorsi che riguardano il suo primo matrimonio. Domenico Santangelo infatti, prima di conoscere l’ostetrica Gemma Cenname nel 1973, era stato sposato con Eleonora Lo Cascio, la mamma di Angela.

Eleonora Lo Cascio era stata colpita sfortunatamente da una malattia e a causa di una iniezione sbagliata, praticatale dal marito, era purtroppo deceduta. E’ una morte sulla quale girano strane voci, perché c’è chi sospetta di una iniezione volutamente errata. I carabinieri battono questa strada e si convincono di poter risalire all’ipotesi di una vendetta familiare contro il Santangelo. Ma l’ipotesi non trova a suo sostegno nessun indizio e nessun concreto elemento di sospetto. E’ da scartare.

Ad un certo punto finisce per qualche giorno, sulle pagine dei giornali napoletani, il nome di un ingegnere trentenne, Giovanni Azzariti Fumaroli, residente a pochi passi dal palazzo della strage. La storia ufficiale narra che l’ingegnere stava attraversando un momento psicologicamente difficile e che si presentò agli investigatori incolpandosi del triplice omicidio. Secondo questa versione, avrebbe dichiarato d’aver ucciso le vittime a colpi di pistola. Naturalmente nessuno poteva credergli, dal momento che la strage è stata compiuta con un corpo contundente e con un coltello. Venne rilasciato immediatamente. (Nell’agosto 2008, a seguito di un articolo su “La Repubblica” che lo chiama in causa circa questo episodio, l’ingegner Giovanni Azzariti Fumaroli precisa che quella versione dei fatti non corrisponde al vero: la circostanza che lo vide protagonista si sarebbe limitata in realtà ad un diverbio avuto con un carabiniere che piantonava il palazzo di via Caravaggio nei giorni immediatamente successivi alla scoperta del triplice delitto. n.d.r.). CONTINUA…

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