Strage di via Caravaggio: è ancora caccia agli assassini

La vicenda di via Caravaggio continua. Continua perché c’è ancora chi lotta, quarant’anni dopo quei tre morti, per cercare la verità. Mentre lenti scorrono i soli e le notti, il ricordo di Domenico, Gemma, Angela muove fogli di carta, mani che corrono sulle tastiere, passi che si muovono negli uffici della Procura e del Tribunale. Perché, se un giudice vorrà ascoltare (e saprà farlo) la possibilità di sapere, di dare un nome agli assassini c’è ancora. Riassunto puntate precedenti: era il 2013 quando nuovi esami sui reperti della strage (uno strofinaccio e vari mozziconi) permisero di trovarci sopra, quarant’anni dopo, il dna di Domenico Zarrelli (già assolto in via definitiva) e di quattro Ignoti: tre uomini e una donna. Gennaro de Falco, l’avvocato che rappresenta Lucia Santangelo, erede di Domenico, ha le idee chiare: “Nessuno ha capito davvero che si è trattato della mano di più persone, come dimostrato dalle impronte differenti lasciate nel sangue sul pavimento e dal dna. È stato l’errore anche della prima indagine, cercare un dottor Jekyll e mister Hide. Una persona sola, quando fu più d’una. E non credo che morirono subito: furono colpiti subito, sì, ma sgozzati quando altre persone tornarono sul luogo del delitto con l’assassino, durante la notte”. Cioè tra le 3 e le 5, come ben sappiamo. Quando i corpi furono spostati, la scena del crimine fu alterata forse lasciando di proposito quei mozziconi, l’assassino lanciò qualcosa dalla finestra a chi era sotto, la luce fu staccata nell’appartamento, l’auto di Domenico Santangelo fu portata via.

Era la notte del 30 ottobre 1975, quando la famiglia Santangelo venne massacrata nel suo appartamento di via Caravaggio 78, a Napoli. Per quanto sia una storia vecchia e polverosa, non c’è persona in quella città che non la conosca, che non abbia un’idea su chi è stato, che non abbia un ricordo. Eppure Napoli di morti ne ha visti, da allora. Ma via Caravaggio è qualcosa di più, è un giallo straordinario. Per i suoi protagonisti, per la vicenda processuale, per l’intreccio incredibile che contiene.

E invece il 27 ottobre scorso il Gip Livia De Gennaro ha deciso che, nonostante queste incredibili novità, non vale la pena riaprire il caso. Rimanemmo basiti. Per due motivi:

  1. Perché ha detto che sarebbe inutile fare altre indagini, visto che gli altri sospettati dell’epoca sono stati assolti definitivamente (Domenico Zarrelli) o sono morti (Annunziato Turro e Giuseppe De Laurentiis). E che vuol dire? Certo che non si possono processare i morti, ma non c’è solo la verità processuale. C’è anche quella storica. Sapere, ad esempio, che è stato X darebbe un nome e un po’ di pace ai parenti. E poi non ci sono solo loro due. La stessa Polizia Scientifica, inascoltata, ha suggerito alla Procura un elenco d’una trentina di altri nomi di cui verificare il dna (“Il gip che ripete due volte che le nuove indagini sarebbero “inopportune” è assurdo, come se non ci fossero altre persone da perseguire” commenta de Falco).
  2. Perché ha detto che sarebbe inutile fare altre indagini, visto che la busta in cui nel 1975 erano stati messi dei capelli (usati oggi per estrarre il dna) di Zarrelli era aperta e quindi non c’era certezza che fossero i suoi, mentre era altamente probabile che ci fosse stata una contaminazione. Eh. E che risposta è? Se si vuole esser certi che i capelli sono proprio quelli dell’allora imputato, bene: che gli si rifaccia oggi il dna, così possiamo esser certi. E poi, le contaminazioni non vanno supposte: vanno dimostrate. La stessa Cassazione l’ha detto a voce alta nella sentenza Meredith: non basta dire “tutto è possibile”, bisogna dimostrarlo logicamente. Messa così, sono parole tanto generiche quanto gravi, visto che le scrive un giudice.

Fermo restando che prendere il dna da dei cadaveri è costoso ma si fa, abbiamo chiesto alla genetista Marina Baldi quanto quei reperti possano essere stati contaminati, nel 1975. In una scena dove, certo, entrarono tutti: vigili del fuoco, poliziotti, barellieri e chi più ne ha più ne metta. “Certo che è possibile, ma va dimostrato scientificamente. Esistono calcoli statistici complessi che servono a questo e si fanno sullo stato del reperto. E poi, prendiamo i mozziconi di sigarette: ci sarà senz’altro moltissima saliva sul filtro. Ma se quel mozzicone è stato contaminato da chi lo ha repertato all’epoca, troveremo appunto molto più dna di chi lo ha fumato che di chi lo ha toccato solo per imbustarlo. Insomma, la contaminazione, se c’è, può essere dimostrata analizzando il reperto”. Appunto.

De Falco intanto sta ricorrendo in Cassazione contro l’ordinanza del Gip. La storia della strage di via Caravaggio e della ricerca della verità continua.

di Fabio Sanvitale