“La notte del colpo di stato in Italia, io c’ero”

La notte dell’8 dicembre 1970, 47 anni fa, in Italia viene tentato un colpo di stato: il golpe Borghese. Lo guida Junio Valerio dei principi Borghese (nella foto in basso), di una famiglia che ha dato un papa alla Chiesa, che si è imparentata coi Bonaparte. Lui, eroe della Marina Militare, è uno che ha scelto di restare coi nazisti dopo l’8 settembre 1943, e che riesce a mantenere anche rapporti stretti con gli americani, tanto che saranno loro a salvarlo da una pesante condanna, nel dopoguerra. Nel 1968 fonda il Fronte Nazionale: decide di rovesciare la democrazia e instaurare un regime militare in Italia. Il gotha economico genovese e i Piaggio sono con lui. Altri movimenti di estrema destra, come Ordine Nuovo, sanno e approvano. A settori dell’amministrazione degli Stati Uniti va bene. Alla P2 va bene. Alla mafia va bene, come confermeranno i boss Buscetta, Liggio e Calderone. Oggi, CN ha intervistato uno degli uomini che quella notte c’era: la notte in cui sarebbe potuta cambiare completamente la storia di questa nazione. Roba da rischiare l’ergastolo.

Ma perché un colpo di stato? Perché la sinistra stava prendendo troppo piede in Italia: e faceva paura. Cosa accade, allora, a Roma nella fredda notte tra lunedì 7 e martedì 8 dicembre 1970? Piove (e molto) in alcune zone della città. Gruppi di uomini sono in attesa. A Montesacro, in un cantiere del costruttore Remo Orlandini; in una palestra di via Eleniana 2, gestita dall’Associazione Paracadutisti di Sandro Saccucci; una cinquantina in via Arco della Ciambella 6, al terzo piano, nella sede di Avanguardia Nazionale di Sandro Delle Chiaie e Adriano Tilgher. Un altro gruppo, che viene dal Quadraro, sta in un negozio, a Cinecittà; un altro nell’appartamento di uno studente fuori sede, dalle parti di Piazzale delle Province, poi ancora in altre case della città. Dalla mattina alcuni congiurati, con la complicità dei poliziotti del corpo di guardia, sono entrati al Ministero dell’Interno e si sono nascosti nei bagni, in attesa di entrare nell’armeria, prendere i mitra e occupare il Viminale, dopo la chiusura degli uffici. Nella stesse ore, una colonna di 197 guardie forestali si muove da Cittaducale -apparentemente per un’esercitazione- e si ferma invece poco prima del tunnel dello stadio Olimpico, vicino gli impianti Rai. In Veneto, in Liguria, in Umbria, in Lombardia, in Campania, nel resto del Lazio altre squadre di militanti sono pronti all’azione: è l’operazione “Tora Tora“.

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Il colpo di stato scatta alle 22.15 e varie staffette in moto fanno correre l’ordine fino ai golpisti. Occupare i ministeri degli Interni e della Difesa, la Rai, uccidere il capo della polizia, rapire il Presidente della Repubblica. Ma con così pochi uomini? Come disse Claudio Vitalone, il magistrato che indagò sul Golpe dell’Immacolata, si volevano “creare le premesse per un intervento autoritario“. Borghese e i suoi erano l’antipasto del nuovo regime che sarebbe venuto. “La notte del golpe ero a Roma con gli altri“, mi dice l’uomo che ho di fronte. Nel 1970 viveva in una città di provincia e aveva meno di vent’anni.

Quando sei stato coinvolto nell’operazione? “Avevano iniziato a selezionarci non prima di ottobre di quell’anno. Era estate piena quando un amico mi dette un foglietto, con scritto di andare al molo nord a una tot ora; e di distruggere il foglietto. Non lo dette solo a me, ma io questo non lo sapevo. In diversi ci ritrovammo lì. Era una prova, per vedere se saremmo andati a un incontro segreto, senza rivelarlo a nessuno: così era stato. La dirigenza locale del Msi aveva scelto un gruppo di noi”.

Vi prepararono, in qualche modo? “Ad ottobre mi dissero a voce che c’era una riunione, ma non il perché. Ci ritrovammo tra di noi, c’era un sottufficiale dell’esercito in borghese. Ci fece provare una pistola, un Mab, un Fal, forse anche un Garand. Fu così che scoprimmo che era in preparazione un tentativo di colpo di stato. Poi ci fu un’altra riunione operativa, in cui venne un dirigente della “Rosa dei Venti”, Di Donna; ed un alto ufficiale. Arrivavano da Roma. Fu Di Donna a parlare quasi sempre. Ci spiegarono meglio cosa stavamo per fare e che era per la prima metà di dicembre. Ci incontrammo in una casa della buona borghesia locale, tra personaggi che erano stati influenti al tempo del fascismo, monarchici”.

Come avvenivano le comunicazioni tra voi? “Mai via telefono per ragioni di sicurezza, sempre con foglietti di carta. Ci avvisarono di dover partire per Roma solo il giorno prima”.

Quanti eravate? “Siamo partiti in 5-6-7, in treno. Per noi era un’avventura, era lo slancio ideale. Era questo. Arrivammo dalla mattina. Eravamo stati in giro per la città tutto il giorno e poi verso sera andammo alla palestra che era il nostro punto di ritrovo. C’erano due palestre: io ero in quella di via Eleniana. Degli altri gruppi non ci dissero nulla. Ce n’era uno, di sicuro, che da una palestra di via delle Milizie doveva occupare la sede Rai di via Teulada. Un centinaio di uomini per palestra, metà ragazzi (alcuni maggiorenni e altri poco sotto, come me) e metà adulti. Non li avevo mai visti, in buona parte erano romani”.

E lì cos’avete fatto, in attesa di un ordine? “Siamo restati a parlare per alcune ore del più e del meno, nessuno faceva accenno a ciò che stava per accadere. C’era una consegna assoluta del silenzio, da prima di partire. Era tardi, non ricordo bene quando, ci dissero di andare e fummo divisi in due gruppi da cinquanta persone, che si incamminarono su marciapiedi opposti”.

Qual era il vostro obiettivo? E il vostro compito? Andavamo verso il Viminale. Non ci dissero nemmeno cosa avremmo dovuto fare. La compartimentazione era rigida. Oggi presumo che, prima di raggiungere il Ministero, qualcuno ci avrebbe dato le armi prese e istruzioni successive. Credo che a noi ragazzi ci avrebbero fatto circondare l’edificio e poi sarebbero entrati quelli più preparati”.

Non ci arrivaste mai. “No. Fummo fermati da una 127 verdina che ci raggiunse a un incrocio, portando il contrordine. Fu solo allora che sentii nominare Borghese e capii che era coinvolto, in quanto l’ordine veniva da lui: il suo nome era molto noto nell’ambiente”.

E poi cosa accadde? Eravamo molto incazzati e frustrati. Dopo i primi minuti arrivò il rompete le righe e ci dividemmo, andando ognuno per i fatti suoi, a gruppetti”.

E’ l’1.40 di notte quando parte, di colpo, l’ordine di bloccare tutto. Cos’è successo? Borghese non lo ha mai spiegato nemmeno ai suoi: l’ipotesi più accreditata è che sia stato avvisato all’ultimo che si stava cacciando in una trappola. L’esercito sarebbe sì intervenuto, ma per spazzare via comunisti e golpisti in un colpo solo. O non sarebbe intervenuto affatto, mandandolo incontro al disastro e quindi comunque eliminandolo. Il tentato colpo di stato torna nel silenzio da cui è venuto. Fino a mercoledì 17 marzo 1971, quando “Paese Sera” titola: “Scoperto un complotto di estrema destra“. Solo quel giorno l’Italia scopre cosa aveva rischiato. Ma questa è un’altra storia.

di Fabio Sanvitale