di Fabio Sanvitale direzione@calasandra.it
31 ottobre 2013
La strage di Via Caravaggio, a Napoli: tre morti senza un perché, nel 1975. Perché ce ne occupiamo? Perché potrebbero esserci grosse novità, se la Procura si decidesse a dirle. Potrebbe esserci il nome dell’assassino, nelle analisi del dna svolte oggi, a 38 anni da quella notte.
I fatti. Verso le 23.30 del 30 ottobre 1975, Domenico Santangelo, 55 anni, ex capitano di marina, apre la porta ad un uomo rimasto sconosciuto. Lo accoglie nel suo appartamento al quarto piano e gli offre da bere un brandy. Qualche minuto dopo Domenico Santangelo viene colpito alla testa e tramortito con un oggetto mai individuato. Quindi, l’assassino va in cucina dove allo stesso modo colpisce Gemma Cenname, 46 anni, la moglie. A questo punto il rumore fa alzare Angela, la loro figlia di 20 anni, a letto influenzata. Viene colpita e uccisa sulla soglia della sua stanza. Il corpo viene ritrovato avvolto tra le coperte del letto. Ma è proprio qui che inizia il mattatoio di via Caravaggio 78. Perché l’assassino prende un coltello in cucina, torna indietro e sgozza Domenico e Gemma, poi trascina i loro corpi nella vasca da bagno e la riempie d’acqua, lasciando larghe strisce di sangue per il corridoio e macchiando mezzo mondo. Si porta via il diario di Angela. Cosa c’era scritto?
Poi se ne va. Se ne va? O ritorna? La testimonianza della signora Caterina Simonetti, che abita al terzo piano, sarà sempre chiarissima: insonne, sente passi pesanti muoversi nell’appartamento di sopra fino all’una di notte; e poi quelli di due persone, che camminano tra le 3 e le 5. E’ a quest’ora, infatti, che l’assassino lascia la casa del delitto e stacca la luce: le lancette di un orologio sono ferme alle cinque, infatti. Se non ha certo ripulito l’appartamento, cos’ha fatto l’assassino per oltre cinque ore, in quella casa? Cosa cercava, mentre lasciava in giro tre mozziconi di Gitanes senza filtro?
La polizia entra in via Caravaggio, nell’atmosfera sospesa di quella casa dove la vita si è fermata una sera di ottobre, l’8 novembre. In cucina ci sono ancora i piatti con la frittata, un bottiglione di vino e la Ferrarelle. Frammenti di lenti da vista sul pavimento del salotto. Ma quello che fa la differenza tra questo delitto e gli altri è nella dimensione del sangue: sta sul davanzale, dove l’assassino si è appoggiato per guardare di sotto, sul pavimento delle stanze, del corridoio. Sta nell’impronta di scarpa numero 41-42 che l’assassino c’ha lasciato dentro. Solo cinque giorni dopo si scoprirà che anche il cagnolino di casa, Dick, è finito in fondo alla vasca, sotto i corpi dei padroni. Un cane di quelli piccoli, che abbaiano furiosamente ogni volta che vedono un estraneo. Anche questo porta la polizia ad accusare e processare Domenico Zarrelli, 33 anni, studente fuori corso e nipote di Gemma. Uno che frequenta la casa di via Caravaggio, che può sapere dove sta l’interruttore della corrente elettrica (peraltro molto nascosto), uno che ha sempre bisogno di soldi, con delle ferite sulle mani. Uno dei pochissimi cui l’ex capitano avrebbe aperto a quell’ora di notte. Condannato all’ergastolo, poi assolto e risarcito dopo 18 anni con oltre 1.300.000 euro, però, Zarrelli esce definitivamente di scena nel 1985. Questa è la conclusione giudiziaria della Strage di via Caravaggio.
Perché Domenico Zarrelli non porta occhiali da vista, indossa scarpe 46, non è vero che ha sempre bisogno di soldi e fuma le HB. E, soprattutto, ha l’alibi che quella sera era al cinema: la fidanzata conferma. Negli anni, sono saltati fuori altri possibili nomi. Due. Uno è Annunziato Turro, pregiudicato che all’epoca aveva affittato un casa di campagna della Cenname, in cui vennero trovati i segni della presenza di un’attività criminale. Si sa che Turro stava chiarendo la situazione con Santangelo. Quel chiarimento arrivò fino all’omicidio? Un altro è Giuseppe De Laurentiis, collega di lavoro di Angela, un medico che nei giorni successivi alla strage portò i suoi occhiali dall’ottico e che presentava ferite al collo ed alle mani. Si sussurrò che avesse una relazione con Angela. Era un tipo collerico, De Laurentiis: fino all’omicidio? Le indagini furono sicuramente a senso unico, questo sì.
Fino a quando la criminologa Imma Giuliani e lo psicologo e psicoterapeuta Fabrizio Mignacca, (consulenti in vari casi, da Bernardo Provenzano a Sollecito, a Ragusa), hanno preso l’iniziativa (autonomamente, in quanto non rappresentano le parti civili e cioè le eredi Santangelo), alcuni mesi fa, di chiedere alla Procura di Napoli di analizzare qualcosa che poteva rivelarsi utile per scoprire il colpevole. Qualcosa che potrebbe rappresentare l’errore commesso dall’assassino. Un asciugamano: quello, sporco di sangue, trovato sulla scena del crimine. Perché potrebbe essere importante, dite? Perché certo è servito all’assassino per pulirsi del sangue dei Santangelo, ma spesso quando si uccide col coltello ci si taglia. E se ci fosse sopra il sangue dell’uomo cui Domenico aprì la porta, quella notte?
Mario Zarrelli, avvocato e fratello di Domenico, non ci crede affatto. “Ma che indagini fanno a fare? I due sospettati, Turro e De Laurentiis, sono morti tutti e due. Se se ne avvia una, bisogna indicare le persone da indagare: qui sono tutti deceduti”. Ma la Procura ha accettato la sfida e sappiamo che ai primi di maggio questi esami sono stati completati.
Quindi, ci sono i risultati. Cosa aspetta il Procuratore della Repubblica a comunicarli? Se non è emerso niente di nuovo, perché non vengono resi noti? Se c’è qualche novità, se c’è un nome, perché non viene reso noto? Questo è quello che chiediamo al Procuratore Aggiunto di Napoli, Giovanni Melillo.
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