di Olga Merli direzione@calasandra.it
Quartiere Ponticelli –Napoli. Alveo del fiume Pollena di Volla. 3 luglio 1983
IL RITROVAMENTO DEI CORPI – I corpi straziati di due bambine, Barbara Sellini di 7 anni e Nunzia Munizzi di 10, vengono rinvenuti seviziati e semicarbonizzati il 3 luglio 1983 intorno a mezzogiorno, dopo molte ore di ricerca da parte dei carabinieri, arrivati lì in seguito a una segnalazione. I cadaveri sono posti l’uno sopra l’altro, legati insieme da una corda. Accanto ai poveri resti vengono recuperati alcuni effetti personali delle vittime, un mattone, un fazzoletto apparentemente macchiato di sangue, stracci e un barattolo di latta senza coperchio. Le due bambine erano scomparse la sera di sabato 2 luglio 1983 intorno alle 19.00 – 19. 30 dal piazzale antistante le loro abitazioni, dove abitualmente si soffermavano per giocare, nei pressi del Rione Incis, quartiere Ponticelli di Napoli.
A distanza di quasi trent’anni, quei luoghi sono molto cambiati: il terriccio argilloso del torrente in secca dove vennero rinvenuti i corpicini delle bambine non esiste più: una colata di asfalto ha cancellato per sempre lo strazio di quel luogo e ha zittito quella terra, intrisa di sangue innocente e testimone di quel massacro.
Probabilmente, quella maledetta sera di inizio luglio, le due amiche avevano “un appuntamento”con qualcuno. Qualcuno che di certo conoscevano; altrimenti, come confermato da molti, non sarebbero mai salite sull’auto di uno sconosciuto. Qualcuno che approfittò della loro ingenuità di bambine, seducendole magari con la scusa di un gelato; qualcuno che calpestò senza pietà quei sorrisi, derubando la freschezza dei loro volti e scaricandole come fossero immondizia tra le sterpaglie ingiallite di quel canale dopo aver, con il fuoco, tentato di cancellare ogni traccia di umanità da quei corpi.
Qualcuno che forse nel caldo torrido di quella periferia degradata un nome, o meglio un soprannome, lo aveva.
I SOSPETTI A tentare di dare un nome o un volto al misterioso assassino, contribuì la testimonianza di un’amica e coetanea delle vittime, Silvana Sasso, che in una delle deposizioni rese confermò l’esistenza di un fantomatico Gino, chiamato dalle bambine “Tarzan tutte lentiggini”, per via del suoi capelli rossi e delle efelidi che aveva sul volto. Quest’uomo, il giorno precedente al delitto, le aveva invitate ad un appuntamento per la sera successiva. A quell’incontro doveva essere presente anche la Sasso la quale, fortunatamente, scampò al massacro, in quanto all’ultimo momento la nonna non le diede il permesso di uscire. La bambina nella deposizione aggiunse che tale Gino, di corporatura robusta, era proprietario di una Fiat 500 di colore scuro.
La bambina nella deposizione aggiunse che tale Gino, di corporatura robusta, era proprietario di una Fiat 500 di colore scuro.
Le indagini partirono concentrate sulla ricerca di questo fantomatico “Gino Tarzan” e su personaggi ambigui che, in passato, si erano macchiati di reati a sfondo sessuale. Numerose furono le testimonianze di coloro che erano state vittime di attenzioni poco nobili e indesiderate da parte di un soggetto che corrispondeva esattamente a quanto dichiarato dalla piccola Silvana Sasso nelle sue deposizioni. La descrizione si adattava perfettamente alla persona di Corrado Enrico, chiamato da tutti “Maciste”per via della sua mole fisica e, particolare sconcertante, proprietario proprio di una Fiat 500 di colore scuro.
Lo stesso, fermato e interrogato poco dopo, ammise di essere un frequentatore del rione Incis per via del suo lavoro di venditore saltuario di oggettistica sacra, di familiarizzare spesso con i bambini e i ragazzi che di volta in volta incontrava nei quartieri dove si soffermava e di essere dedito all’abuso di alcool, condizione questa che, stando sempre alle sue dichiarazioni redatte dagli inquirenti, “…gli creava una confusione mentale…”. Dalla sua deposizione:
“Da circa un paio d’anni sono avvezzo all’uso eccessivo di bevande alcoliche ed ogni volta che ne faccio uso crea in me una confusione mentale che mi porta a compiere atti abnormi (atti osceni nei luoghi dove io mi porto a bordo dell’auto nei confronti di persone di sesso femminile ed in particolare bambine)”.
Corrado Enrico era quindi solito irretire bambini per soddisfare i propri desideri istintuali, sottraendoli talvolta anche con la forza e compiendo atti osceni su di essi. Sempre dalla sua deposizione:
“…Una prima volta sotto i fumi dell’alcool portatomi sotto il ponte ho avvicinato una bambina che dopo averla afferrata l’ho baciata sulla guancia e, nel contempo estraevo il membro, masturbandomi… […] ricordo ancora che in un’altra circostanza e sempre nelle medesimi condizioni dopo aver raggiunto il sopramenzionato ponte ho tentato ma invano, di adescare altri bambini per soddisfare le mie voglie sessuali…”
Nonostante sul soggetto convergessero indizi gravi e concordanti, e la sua personalità fosse degna di essereesaminata approfonditamente, così come i movimenti compiuti dallo stesso nelle settimane antecedenti il duplice delitto, su Corrado Enrico non si procedette ad una indagine a tutto campo; la sua auto non venne neanche esaminata ed egli ebbe il tempo di disfarsene in un misterioso “scasso” , uno sfasciacarrozze dove l’avrebbe abbandonata. Persino l’alibi che l’uomo aveva fornito agli inquirenti risultò incerto: egli dichiarò di essere tornato a casa alle ore 18.00 mentre la moglie lo contraddisse, spostando l’orario di ritorno del marito tra le 20.30 e le 21.00 di quel sabato 2 luglio 1983.
Quell’auto, nascondeva un altro inquietante dettaglio. Aveva un fanale rotto come lo stesso Enrico aveva confermato in uno dei verbali. Particolare che acquisisce un’importanza fondamentale se confrontato con le dichiarazioni di un’altra testimone, Antonella Mastrillo, coetanea delle vittime. La bimba, la sera della domenica successiva al delitto, rivelò spontaneamente alla madre di Nunzia Munizzi di aver visto le piccole, quel 2 luglio 1983, allontanarsi dal quartiere per raggiungere una Fiat 500 di colore scuro che aveva un fanale rotto e la scritta “vendesi”. Antonella raccontò anche di aver notato che l’occupante dell’auto aveva spalancato lo sportello anteriore destro per farle salire.
La piccola Antonella Mastrillo venne nuovamente convocata per confrontare ed esaminare le foto di un altro pretendente al ruolo di Gino Tarzan, un certo Vincenzo Esposito, il cui nominativo era emerso nel corso delle indagini. La Mastrillo riconobbe in quest’ultimo il giovane che qualche giorno prima del delitto era seduto su una panchina, nei pressi del rione Incis a Ponticelli. L’Esposito venne addirittura indicato dal minore Ernesto Anzovino, come uno dei due ragazzi che la sera del primo luglio 1983 si era intrattenuto insieme a Barbara Sellini e Nunzia Munizzi.
Da notare che il fratello del teste Ernesto Anzovino, Luigi, precedentemente detenuto per aver aggredito e accoltellato la sorella di diciotto anni, si suiciderà anni dopo, gettandosi da una finestra della sua abitazione, dopo che i carabinieri avevano suonato alla sua porta per ricondurlo al soggiorno obbligato dal quale era fuggito circa una settimana prima.
La posizione dell’Esposito risultava ambigua e a tratti reticente. L’uomo tentò di costruirsi un abili credibile che venne puntualmente smontato. Inoltre, nella sua deposizione del 1 agosto 1983, confermò la presenza di un’auto indicata come una Fiat 500 di colore blu scuro che si aggirava nei pressi del Rione Incis, ma non addusse particolari utili che potessero far identificare il conducente di tale mezzo. Anzi, in un secondo momento divenne uno dei più accaniti accusatori dei futuri presunti colpevoli.
La ferocia di quel duplice omicidio aleggiava tra i caseggiati degradati del quartiere e toglieva il respiro quasi come l’afa che stringeva nella sua morsa la città. Occorreva trovare il colpevole. Serviva farlo subito. Troppa tensione minacciava i fragili equilibri che all’inizio di quegli anni ottanta attanagliavano la città. Troppi gli interessi che la soggiogavano e altissima la posta in gioco, come il dominio e la relativa ”urbanizzazione” di quella terra un tempo definita “Campania felix”. La rabbia e il dolore di quei giorni sconvolsero la stabilità auspicata da chi pretendeva di tener in scacco quei territori. La situazione doveva essere “normalizzata”.
La madre di Barbara, Mirella Grotta Sellini, sconvolta per la perdita della figlia, si rivolse direttamente al presidente della Repubblica, Sandro Pertini, facendo un appello affinché fosse fatta giustizia. Dopo qualche giorno, le indagini si conclusero.
Il 4 settembre 1983, in seguito alle dichiarazioni di Carmine Mastrillo (fratello di Antonella), vennero arrestati tre giovani del luogo: Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo. Altri due ragazzi, Aniello Schiavo e Andrea Formisano, vennero accusati di favoreggiamento.
Il supertestimone Carmine Mastrillo, inizialmente sentito dai carabinieri a sommarie informazioni, aveva riferito di non essere assolutamente a conoscenza dei fatti. In un secondo momento, dopo aver intuito che gli organi inquirenti sospettavano fortemente di Vincenzo Esposito, aveva cambiato completamente la propria versione dei fatti.
Le sue numerose dichiarazioni/ritrattazioni sembravano, di tanto in tanto, adattarsi alle “pressioni esterne” di turno. In principio di fronte alla Corte d’Assise, tentò di sconfessare quanto da lui precedentemente asserito, ma dinanzi al pericolo di essere imputato per falsa testimonianza tornò alla versione originaria, accusando i tre imputati di essere gli autori dell’atroce delitto. I tre, subito dopo averlo commesso, lo avrebbero avvicinato per confidargli il terribile segreto, intimandogli di non rivelarlo a nessuno.
In seguito, dopo un periodo di “riflessione” in cella insieme a un pentito della Camorra, Mastrillo fornì una dettagliata e particolareggiata versione dei fatti: Imperante, La Rocca e Schiavo avrebbero condotto le bambine a bordo della Fiat 500 bianca di La Rocca in una zona molto isolata e avrebbero abusato sessualmente di loro; in un secondo momento, chiedendo aiuto al fratello di Giuseppe La Rocca, Salvatore, sarebbero tornati sul luogo del delitto per cancellare le tracce dell’abominio compiuto, bruciando i cadaveri, accecati dalla paura di essere scoperti.
Effettivamente Salvatore La Rocca confermò, almeno in un primo tempo, la versione di Mastrillo, ritrattando però subito dopo la propria “confessione” e denunciando il clima di grande pressione psicologica al quale venne sottoposto, oltre che le presunte minacce e torture subite affinché avallasse il racconto del supertestimone. Nessuno gli credette. Numerose furono le contraddizioni nel resoconto del teste Mastrillo, e l’inconciliabilità delle lacune create dalla sua deposizione in merito ai segmenti spazio temporali dell’excursus omicidiario.
Questa ipotesi accusatoria, non soddisfaceva criteri basilari quali, ad esempio, l’identificazione dell’arma del delitto. Stando alla testimonianza di Mastrillo, essa sarebbe stata un “ferro” trovato sul luogo dell’eccidio, che però contrastava nettamente con quanto stabilito dalla perizia autoptica che indicava in un’arma bianca, precisamente in un coltello a serramanico, come l’oggetto responsabile del massacro.
Anche sull’individuazione del movente i limiti di quella tesi mostrarono insormontabili difficoltà e contrapposti scenari. Per l’accusa, era da ricercarsi nella presunta violenza carnale che i tre giovani avrebbero perpetrato nei confronti delle vittime. Ma, nella perizia autoptica non si evinceva alcun dato che potesse supportare la violenza carnale, vista anche l’assenza di liquido seminale nel canale vaginale della Munizzi e addirittura la presenza “in situ” delle mutandine sul corpo della piccola Barbara Sellini.
LA PERIZIA AUTOPTICA La perizia autoptica redatta dal professor Alfonso Zarone sui corpi orrendamente straziati delle bambine evidenziò la presenza di numerose ferite da arma bianca, presumibilmente inferte con un coltello a serramanico la cui lama, monotagliente in prossimità della base, doveva avere una lunghezza minima di dieci centimetri e una larghezza di due. Le lesioni d’arma bianca sul cadavere di Barbara Sellini erano almeno dodici, diciannove quelle rinvenute sul cadavere di Nunzia Munizzi, anche se potevano essere molte di più, dato che l’accertamento medico era riferito alle zone del corpo non interessate dalle ustioni. Le ferite erano state inferte in maniera non omogenea: alcune sferrate a maggiore profondità, altre superficialmente, nell’ordine dei 4- 5 millimetri.
Le considerazioni mediche relative alle ferite mortali evidenziarono che, nel caso di Barbara Sellini, era da considerarsi prevalente il colpo inferto con arma da punta e da taglio che aveva provocato la recisione della carotide e i vasi più profondi. Nel caso della Munizzi si evidenziò come la morte sopraggiunse a seguito di due pugnalate vibrate con forza, trapassanti la parete posteriore del cuore. Inoltre, sui poveri resti, la ricognizione cadaverica rivelò che l’intento primario di molte di quelle lesioni non era la soppressione immediata della vittima, ma sussistevano caratteristiche tali da poter evidenziare un intento sadico da parte del responsabile di quel terribile gesto.
Nonostante tali discrepanze e le rimostranze dei tre giovani che continuavano a proclamarsi innocenti, secondo l’accusa Ciro Imperante, Luigi Schiavo e Giuseppe La Rocca erano i colpevoli e dovevano pagare. Così fu.
I dubbi, però, non vennero dissipati da nessuno; anzi, non misero nemmeno in bilico l’audace castello accusatorio nei confronti dei tre imputati.
Meno di un’ora per prelevare le bambine, portarle in un luogo adatto a compiere il misfatto, abusare di loro,e brutalizzarle con atti sadici.
Meno di un’ora per recarsi dal fratello di uno dei partecipanti all’eccidio e chiedere aiuto, ritornare sul luogo del delitto e caricare i cadaveri delle piccole sulla 127 beige in loro possesso, per raggiungere il sito finale dove verranno rinvenute le bambine il giorno successivo.
Infine, sempre meno di un’ora per dare fuoco ai poveri corpi usando la benzina riposta nella Fiat 500 di proprietà di Giuseppe La Rocca e cancellare perfettamente le tracce ematiche dai loro abiti e dall’autovettura per poi incontrarsi, intorno alle 20.30 nella discoteca Eco Club di Volla con l’amico nonché futuro supertestimone dell’accusa, e raccontare con dovizia di particolari lo scempio appena commesso, con il rischio di depauperare tutti gli sforzi faticosamente compiuti per non essere scoperti.
Inoltre, l’accusa sostenne che il delitto fu compiuto in un fondo terriero adiacente il luogo del ritrovamento dei cadaveri, ma i proprietari del terreno in questione negarono di aver notato particolari che potessero ricondurre al delitto: essi dichiararono che il 2 luglio 1983 si trattennero per lavoro sul fondo di loro proprietà fino a tarda sera, senza notare nessun movimento sospetto né la presenza in loco di estranei.
Nelle auto degli imputati non venne rinvenuta alcuna traccia significativa che potesse avallare l’ipotesi che fosse stata usata per il duplice delitto, salvo un fazzoletto con una piccola macchia ematica ritrovato all’interno della tasca posteriore del sedile, sul quale Giuseppe La Rocca fornì una spiegazione tutt’altro che inverosimile. Dichiarò infatti di essersi ferito ad un piede e di aver, con quel fazzoletto, bloccato la misera perdita di sangue. Per accertare la provenienza della sostanza, si procedette all’analisi della macchia e venne disposta l’esumazione delle bambine. La piccola traccia ematica risultò essere di gruppo A; lo stesso gruppo sanguigno di Barbara Sellini; ma anche l’identico gruppo ematico dell’imputato La Rocca.
Nella sentenza si diede risalto a questo particolare, sostenendo che quel fazzoletto fosse stato usato per ripulire l’autovettura dopo il delitto: ma come sarebbe stato possibile tamponare la rilevante perdita ematica della vittima, eliminare le tracce dai sedili e tra gli interstizi della 127, producendo sul fazzoletto soltanto una semplice, piccola macchia di sangue?
IL PROCESSO
17 marzo 1986 Dopo tre anni dall’inizio della loro sventurata odissea giudiziaria e la scarcerazione per decorrenza dei termini, inizia il processo nei confronti di Ciro Imperante, Luigi Schiavo e Giuseppa La Rocca, i tre presunti responsabili del massacro di Ponticelli.
11aprile 1986 La Prima Sezione della Corte di Assise di Napoli, condanna Ciro Imperante, Luigi Schiavo e Giuseppe La Rocca alla pena dell’ergastolo con l’aggravante di aver compiuto quel delitto per occultare la violenza sessuale sulle vittime. Salvatore La Rocca, fratello di Giuseppe viene condannato a cinque anni di reclusione per l’occultamento dei cadaveri.
9 ottobre 1986 Viene confermata la pena dell’ergastolo per i tre giovani accusati del duplice delitto.
27 giugno 1987 Vengono respinti i ricorsi del Collegio della Difesa dei tre imputati che saranno definitivamente condannati all’ergastolo.
19 marzo 1992 La Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione conferma la decisione della Corte di Appello di Napoli, che aveva respinto la richiesta di revisione del processo per il massacro di Ponticelli.
22 febbraio 2001 La Cassazione rigetta la richiesta di revisione del processo avanzata dagli imputati e già precedentemente rifiutata dalla Corte d’Appello di Roma.
25 giugno 2012 Nuova richiesta di revisione del processo per Ciro Imperante, Luigi Schiavo e Giuseppe La Rocca.
Tre gradi di giudizio che li hanno consacrati come i Mostri di Ponticelli, epiteto che si porteranno dietro probabilmente fino al resto dei loro giorni o fino a quando non si deciderà, con coraggio e determinazione, di scoprire la verità su questo spaventoso caso di cronaca che ha visto due bambine innocenti morire per mano di uno spietato assassino e tre giovani incensurati soccombere sotto la mannaia accusatoria di un processo che non è servito a dipanare la matassa di questo intricato o forse troppo semplice, caso giudiziario.
È per questo motivo che è stata chiesta la revisione del processo da parte del collegio difensivo composto dagli avvocati Eraldo Stefani, Ferdinando Imposimato e Francesco Stefani, legali dei tre ragazzi condannati all’ergastolo che hanno scontato in carcere 27 anni, molti dei quali all’interno della Casa Circondariale di Spoleto, dove hanno poi deciso di ricostruirsi una vita. Richiesta di revisione che si basa sulle indagini difensive condotte negli anni e sulla variazione del presunto orario del delitto, che porterebbero all’identificazione di alibi certi e nuove prove in grado di mettere in discussione l’impianto accusatorio che ha permesso la loro condanna. Una revisione divenuta indispensabile per l’accertamento della verità, ma che purtroppo non servirà a risarcire il tremendo ed irrecuperabile strascico di dolore e sofferenza che provoca un eventuale e clamoroso errore giudiziario nell’esistenza di un innocente condannato senza giusta e comprovata causa.
Qualche giorno fa la Corte d’Appello di Roma ha accolto la richiesta di revisione del processo. L’arduo compito del nuovo tribunale sarà quello di gettare luce e dare finalmente un nome e un volto al vero assassino che da quasi trent’anni è a piede libero, dopo aver commesso uno dei più efferati delitti che la cronaca del nostro tempo ricordi.
(per le foto presenti in questo articolo si ringrazia Giuliana Covella)
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