Rina Fort: la belva di San Gregorio

 

rina fort

di Olga Merli direzione@calasandra.it

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La brezza umida di novembre inghiotte Milano, in quel freddo scorcio di autunno del 1946. Al civico 40 di via San Gregorio, la polizia scientifica è intenta a immortalare l’ultimo fotogramma di quella gelida mattina. Il terribile resoconto per immagini di un massacro, che passerà alla storia come la “strage di via San Gregorio”.

Sul pavimento del corridoio e della sala da pranzo del piccolo appartamento giacciono, in un lago di sangue, i corpi senza vita di Franca Pappalardo, 35 anni, moglie di Giuseppe Ricciardi, un commerciante di origini siciliane e i tre figli della coppia: Giovannino di sette anni, Giuseppina di cinque e Antonio di appena dieci mesi.

IL RITROVAMENTO DEI CORPI – La scena che si presenta dinanzi agli occhi di Pina Somaschini, commessa  da poco assunta da Giuseppe Ricciardi (marito della Pappalardo), è terrificante. La Somaschini, poco dopo le otto di quel maledetto 29 novembre 1946, bussa invano e per parecchie volte  alla porta  di casa del titolare. Ha bisogno delle chiavi del negozio e, vista l’assenza di quest’ultimo che è fuori Milano per affari, si era recata dalla moglie per averle.

Non ottenendo risposta e approfittando della porta socchiusa, Pina decide timidamente di entrare. Ciò che vede si imprimerà a fuoco nella sua memoria:  lo  spettacolo straziante di quei poveri corpi, il sangue che imbratta i muri, le porte, il pavimento e quel silenzio, spietato e surreale, a incorniciare l’ immobile,  assurdo palcoscenico di morte che invadeva il suo sguardo.

san gregorioI bambini. Quei poveri bambini. Pina Somaschini intrevede la testa ciondolante del piccolo Antonio,  abbandonato lateralmente sul seggiolone. Gli altri corpicini,  a poca distanza tra loro, sono riversi a terra, coperti di sangue accanto al cadavere prono della loro madre che, sottomessa dalla brutalità di quell’aggressione, non è riuscita a proteggerli.

Quella scena si materializza in un grido acuto che  deforma il viso della Somaschini e scuote il quotidiano tram-tram di via San Gregorio. La donna corre in strada, urlando. L’ombra oscura di quel massacro  si insinua tra le mura dei palazzi, nei vicoli, tra la gente. Tutti si chiedevano chi abbia potuto trucidare senza pietà una madre con i suoi tre bambini.

L’ARRESTO DI RINA FORT – Rina Fort viene arrestata nella pasticceria dove lavora,in via Settala, a Milano. Accusata immediatamente, poche ore dopo il delitto, di quella mattanza.  Caterina, detta “Rina”, Fort. Amante di Giuseppe Ricciardi, marito della vittima. Ricciardi che, messo a confronto con lei in Questura, le va incontro e l’abbraccia, commosso.

Inizialmente la Fort nega ogni addebito, persino la sua relazione con il commerciante siciliano. Portata all’interno dell’appartamento del massacro, si mostra indifferente alla cosa, quasi non la riguardi. Ma dopo essere stata settanta ore sotto torchio, gli inquirenti le strappano finalmente la confessione. La donna ammette l’omicidio della Pappalardo ma nega di aver infierito sui bambini. In seguito parlerà di uno o più complici che li avrebbero uccisi, arrivando a sostenere il coinvolgimento dello stesso Ricciardi nella vicenda, quale mandante di quello che doveva essere soltanto un tentativo di inscenare  una rapina e convincere la Pappalardo a tornarsene in Sicilia e che, invece, si sarebbe trasformato nella terrificante carneficina che sconvolse il dopoguerra italiano.

BIOGRAFIA DELLA BELVA DI SAN GREGORIO – Caterina Fort, per tutti Rina, nasce a Budoia, in provincia di Pordenone, nel 1915. Ha un’infanzia difficile, sconvolta da una serie impressionante di lutti che colpiscono i suoi familiari. Dapprima, la morte della nonna, avvenuta quando Rina ha appena tre anni, alla quale era molto affezionata;  poi un fulmine, che nel 1927 incendia la casa dei Fort e provoca un rogo dal quale  riescono miracolosamente a mettersi in salvo. Infine, la morte del padre avvenuta mentre, in compagnia di Rina, sta facendo una passeggiata in montagna. L’uomo scivola nel precipizio mentre stava aiutando Caterina a superare un piccolo ostacolo.

A tutto ciò si aggiunge una serie di suicidi che coinvolgono alcuni parenti  prossimi della Fort, tratteggiando così un quadro assai significativo dell’ambiente in cui la donna è cresciuta e delle dinamiche psicologiche che, avvicendandosi nel tempo, sicuramente hanno influenzato la personalità di chi, per tutti, in quel lontano 1946 diventa  la “Belva di via San Gregorio”.

Alle spalle, la morte per tubercolosi del suo fidanzato e, in seguito, un matrimonio fallito con Giuseppe Benedet , suo compaesano che, a detta di molti e come verrà confermato dal  ricovero in manicomio dell’uomo pochi anni più tardi, dava segni di squilibro gìà poco  dopo le nozze.

La Fort si separa dal marito e si trasferisce a Milano, presso una sorella. Verso il settembre del 1945 trova lavoro nel negozio di stoffe di proprietà di Giuseppe Ricciardi di cui, prestissimo, diventa l’amante. La loro relazione si dipana alla luce del sole, approfittando del fatto che Franca Pappalardo, moglie del Ricciardi, non si trova a Milano ma a Catania con i bambini; il rapporto clandestino dura fino a quando voci insistenti sull’infedeltà conclamata del marito convincono Franca Pappalardo a raggiungerlo, in quel gelido ottobre del 1946.

A questo punto la Fort viene licenziata e subisce l’onta e la frustrazione della nuova, quarta, gravidanza della Pappalardo. Questa rivelazione ai suoi occhi è un affronto insostenibile. Dopo il licenziamento, la chiusura ufficiale della sua relazione sentimentale con il Ricciardi e la presunta gravidanza della sua rivale, crede di impazzire. Lei, che essendo sterile non può avere figli.

Devono essere queste le motivazioni che quella sera del 29 novembre inducono Caterina Fort a vagare, disperata, nei pressi di via San Gregorio, e che la convincono a oltrepassare quel portone socchiuso, la cui serratura, per una singolare coincidenza, si è rotta poco prima e deve ancora essere riparata dal portiere dello stabile.

E cosa accade quando si presenta dinanzi allo sguardo di Franca Pappalardo e a quello dei  suoi figli, bambini innocenti che, ignari della furia assassina che di li a poco li travolgerà, giocano sul pavimento?

LA CONFESSIONE – Ecco il resoconto di quella notte, attraverso la confessione che Caterina Fort rilascia agli inquirenti che la interrogarono  ventiquattro ore dopo  la strage:

san gregorio« Quella sera vagavo senza meta quando, all’altezza di via Tenca, automaticamente voltai a destra ed entrai nello stabile numero 40 di via San Gregorio, attraversai l’interno dell’andito, salii al primo piano e bussai alla porta d’ingresso della famiglia Ricciardi. La signora chiese chi fosse, poi aprì la porta. Entrai porgendole la mano ed ella mi salutò cordialmente. Ricordo che reggeva in braccio il piccolo Antoniuccio. Mi introdusse in cucina facendomi sedere, mentre gli altri due bambini giocavano fra loro. Appena seduta avvertii un lieve malessere, tanto che la signora Pappalardo mi diede un bicchiere con acqua e limone. Quindi ella volle chiarire la stranezza della mia visita: «Cara signora» – disse – «lei si deve metter l’animo in pace e non portarmi via Pippo, che ha una famiglia con bambini. La cosa deve assolutamente finire, perché sono cara e buona, ma se lei mi fa girare la testa finirò per mandarla al suo paese». Preciso che prima di porgermi il bicchiere la signora depose il bambino sul seggiolone e dopo aver parlato mi portò dalla cucina una bottiglia di liquore allo scopo di offrirmi da bere. Quindi ritornò nella camera da pranzo per prendere un cavatappi, non avendolo trovato in cucina. A questo punto, mentre la Pappalardo era nella stanza da pranzo, ruppi il collo della bottiglia di liquore e ne versai in abbondanza. Accecata dalla gelosia, dalle parole poco prima rivoltemi dalla Pappalardo, oltre che eccitata dal liquore, mi alzai andandole incontro. Giunta nell’anticamera l’incontrai mentre tentava di venire in cucina. Alla mia vista essa si spaventò, indietreggiando, mi avventai sopra di lei e la colpii ripetutamente alla testa con un ferro che avevo preso in cucina e di cui non sono in grado di precisare le dimensioni. La Pappalardo cadde tramortita sul pavimento, io continuai a colpirla. Il piccolo Giovannino, mentre colpivo la madre, si era lanciato in difesa di lei afferrandomi le gambe. Con uno scrollone lo scaraventai nell’angolo destro dell’anticamera e alzai il ferro su di lui: alcuni colpi andarono a vuoto e colpirono il muro, altri lo raggiunsero al capo. Preciso di aver abbatutto prima Giovannino; poi entrata in cucina, colpii la Pinuccia; ad Antoniuccio, seduto sul seggiolone, infersi un solo colpo, in testa. Frattanto Giovannino si era alzato dall’angolo dove giaceva, per cui calai su di lui altri colpi, facendolo stramazzare al suolo esanime con la testa presso la porta della cucina. La Pinuccia, colpita in cucina, era caduta riversa accanto al tavolo. Terrorizzata dal macabro spettacolo, scesi le scale e mi portai davanti alla porta del retrostante negozio, subito a destra della scala. Dall’interno il cane abbaiava rabbiosamente. Avrei voluto tornare sul luogo dell’eccidio, ma sbagliai strada e mi ritrovai sui gradini che portano alla cantina. Rimasi seduta sul primo gradino pochi attimi per riprendere fiato, poi risalii le scale dell’appartamento, nel quale le luci erano accese come le avevo lasciate. La signora Pappalardo e i suoi tre figli non avevano esalato l’ultimo respiro. Entrai nella camera da letto, mi tolsi le scarpe e ne calzai un paio del Ricciardi, quelle dalle sette suole. Sulle spalle, sopra il cappotto, mi gettai una giacca, poi aprii diversi cassetti asportando una somma imprecisata di denaro e alcuni gioielli d’oro. Misi a soqquadro la casa intera, non so a quale scopo. Non era ancora morto nessuno: il piccolo respirava, la signora si dimenava, la Pinuccia rantolava. La Pappalardo fissandomi con occhi sabbrati (sic!) diceva sommessamente: «Disgraziata! Disgraziata! Ti perdono perché Giuseppe ti vuol tanto bene.» Poi soggiunse «Ti raccomando i bambini, i bambini…». Mi chiese aiuto la signora, mentre continuava a dimenarsi. Singhiozzava, poi si mise bocconi. Mi diressi verso la camera da letto e passai su di lei con tutto il peso del mio corpo. Essa non parlava più, ma respirava ancora. Senza rendermi conto di ciò che facevo, rovesciai sul viso delle vittime un liquido, e prima di allontanarmi definitivamente ficcai loro in bocca dei pannolini imbevuti dello stesso liquido. Rimisi quindi le scarpe nel comodino e la giacca al posto in cui l’avevo trovata. Le vittime agonizzavano ancora quando accostai la porta e discesi le scale. Andai a casa, mangiai due uova fritte con grissini. La notte non potei dormire. Il giorno seguente mi recai normalmente al lavoro… »

rina fortIL PROCESSO – L’aula della prima sezione della Corte d’Assise di Milano appare gremita. E’ il 10 Gennaio del 1950. Lei, Caterina Fort, la “belva di San Gregorio” come è stata ribattezzata dal giornali, esce dalla porticina laterale del gabbiotto poco dopo le nove. La testa inizialmente chinata, resta impassibile durante i primi momenti del processo.

Poi, quegli occhi, occhi di ghiaccio, si sollevano sulla corte, sulla platea, e sembrano voler  segare le sbarre della gabbia dove sono rinchiusi. Giornalisti, fotografi, curiosi, tutti in fila per strappare uno sguardo, un’impressione, una battuta di quella donna vestita di scuro, nel cui abbigliamento stona quella vistosa sciarpa gialla che le fascia il collo.

Resta impassibile anche quando, durante la prima udienza, dal pubblico si levano  voci ed insulti, richieste di condanna a morte, fino al rogo in piazza  per quella donna che incarna una rivisitata mistificazione del male, una stregonesca espressione di voluttà femminile  dai bestiali risvolti, inganno primordiale di cui è nutrice.

E’ proprio in quell’ottica che vengono accolte le sue dichiarazioni circa la  collusione con Ricciardi, come mandante del delitto, e col suo presunto complice, tale Carmelo Zappulla. Complice che, comunque, non riconosce nel confronto all’americana in Questura, per poi ritrattare e riconoscerlo. La posizione di Ricciardi, invece, appare inizialmente poco limpida agli inquirenti: lui nel frattempo si è costituito parte civile contro la Fort. Alla fine verrà prosciolto, ma l’arringa del legale del cognato, fratello della Pappalardo, lo accusa di essere stato un pessimo padre e marito per la povera vittima.

Sorte diversa ha Carmelo Zappulla, nonostante diversi indizi sulla scena del delitto facciano propendere per la presenza, insieme a Caterina Fort, di un complice. Ad esempio i tre bicchieri di liquore che erano stati rinvenuti sul tavolo della cucina, offerti dalla sventurata Franca a quello o a quelli che si sarebbero rivelati, in seguito, i suoi assassini. Si fa un anno e mezzo di carcere, Zappulla, prima di essere assolto.

Numerose le lacune e i dubbi che il processo non riesce a dissipare: primo fra tutti l’eventualità, affatto remota, che la “belva di San Gregorio”, non abbia agito da sola.

LASENTENZA – Nonostante tutto, il 20 gennaio 1950, alle 12,15 esatte, il Presidente della Corte Marantonio  dà inizio alla lettura del verdetto, riconoscendo Caterina Fort colpevole di tutti i reati a lei ascritti: escludendo la premeditazione, la condanna all’ergastolo per omicidio continuato, calunnia e simulazione di reato. Sentenza confermata il 9 aprile 1952 nel processo d’appello e  in Cassazione il 25 novembre 1953.

I primi anni di detenzione Rina Fort li sconta presso il Carcere di Perugia, lasciandosi alle spalle il lungo periodo passato, in attesa di giudizio, presso il manicomio criminale di Aversa, dove era restata in osservazione dal noto psichiatra Filippo Saporito che l’aveva definita “totalmente capace di intendere e di volere” al momento del delitto.

Poi viene trasferita a Trani; infine nel Carcere delle Murate di Firenze. Dopo trent’anni di carcerazione, il Presidente della Repubblica Giovanni Leone le concede la grazia. E’ il 12 settembre 1975.

Rina Fort muore di infarto il 2 marzo 1988 a Firenze, portandosi nella tomba molti interrogativi che ancora oggi restano senza risposta e continuando fino all’ultimo a negare di aver ucciso i bambini.

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