Recensione di “Amanda Knox”, il documentario sul delitto di Perugia

“C’è chi crede nella mia innocenza e chi crede nella mia colpevolezza, non c’è una posizione intermedia”, queste sono le prime parole pronunciate da Amanda Knox nel nuovo documentario dei registi statunitensi Rod Blackurst e Brian McGinn uscito lo scorso 30 settembre sulla piattaforma Netflix. Un’ora e mezza in cui si è ripercorsa la tragica vicenda dell’omicidio di Perugia, avvenuto nel 2007, attraverso filmati ed immagini inedite. Uno dei fatti di cronaca nera sicuramente più controversi e intricati del panorama italiano che ha avuto un impatto mediatico internazionale enorme sia perché ha visto il coinvolgimento dell’inglese Meredith Kercher, vittima dell’omicidio, e dell’americana Amanda Knox, inizialmente accusata di aver concorso nell’omicidio della sua coinquilina e poi definitivamente assolta, sia perché gli otto anni di processo sul caso sono stati pieni di ombre, dubbi e quesiti che ancora oggi (e probabilmente per sempre), nonostante la sentenza definitiva, hanno fatto e faranno discutere. Quello che sarebbe dovuto essere l’anno più bello della vita di Meredith (il progetto Erasmus offre la straordinaria possibilità di studiare per un anno all’estero e poter ampliare i propri orizzonti culturali) si è tramutato invece, nel giro di pochissimo tempo, nel più crudele e disumano destino: è il 1° novembre del 2007 quando la studentessa inglese viene ritrovata senza vita nella sua stanza dell’appartamento in via della Pergola a Perugia. Ed è proprio con questa cruda e reale immagine che inizia il documentario, la visione di un piumone che copre il corpo senza vita di Meredith, in cui si intravede solo un piede che fuoriesce e una camera totalmente sottosopra, ricoperta di sangue, che fece subito intuire agli inquirenti che si trattava di un omicidio. Tutti, o quasi tutti, conoscono la triste vicenda, nota anche per un iter giudiziario molto travagliato: inizialmente vennero condannati in primo grado Amanda Knox (coinquilina di Meredith) e Raffaele Sollecito (fidanzato dell’americana) per concorso in omicidio, un delitto che secondo gli inquirenti vedeva però, oltre ai due imputati, il coinvolgimento anche di un’altra persona. Le dichiarazioni della Knox, che sin da subito si è proclamata innocente, avevano portato ad identificare come terza persona coinvolta, e secondo Amanda colpevole dell’omicidio, Patrick Lumumba che fortunatamente grazie ad un alibi di ferro riuscì a dimostrare la sua estraneità ai fatti. Attraverso il lavoro della scientifica si risalì infatti al Dna di Rudy Guede, presente la notte dell’omicidio nell’appartamento in via della Pergola. L’ivoriano riuscì ad ottenere la concessione del rito abbreviato con lo sconto della pena da 30 a 16 anni di reclusione. Nel 2011 Amanda Knox e Sollecito vennero assolti e scarcerati per non aver commesso il fatto, nel 2013 la Corte di Cassazione accolse il ricorso della Procura Generale di Perugia annullando la sentenza del 2011 e rinviando il tutto alla Corte d’Assise d’Appello di Firenze che nel gennaio 2014 condannava nuovamente la Knox e Sollecito a 28 e 25 anni di reclusione. Sarà poi la Suprema Corte di Cassazione che il 27 marzo 2015 assolverà definitivamente i due imputati per mancanza di prove ed errori nelle indagini. Insomma un iter davvero burrascoso, prima colpevoli, poi innocenti, poi nuovamente colpevoli e poi ancora innocenti.

meredith kercherQuesto è uno dei punti cardine messi in evidenza nel documentario, ben lontano dal parlare della vittima, di cui davvero si è sentito parlare sempre molto poco, se non con quelle due sfuggenti immagini del video che la ritraggono, nei giorni precedenti la morte, sorridente in piazza e in quei pochi minuti dedicati alla famiglia della Kercher, che con grande dignità ha affrontato questa tragedia che li ha investiti. La protagonista qui è Amanda, la giovane americana desiderosa di uscire dal suo “ambiente familiare sicuro (come lei stessa dichiara nel docufilm) per ritrovare se stessa” ma che viene improvvisamente coinvolta e messa in mezzo in una vicenda che, nonostante l’assoluzione, le ha stravolto, o meglio, rovinato la vita. Ma non solo, lei continua dicendo: “Se sono colpevole sono la persona di cui ti devi spaventare, perché sono una psicopatica travestita da agnello, ma se sono innocente, allora sono te!”. Affermazione che indubbiamente fa riflettere, perché chi guarda il filmato cerca di mettersi nei suoi panni, ma una domanda nasce spontanea: in quanti avrebbero accusato un “Lumumba” senza avere la certezza che fosse lui rischiando di rovinargli la vita? Quesito posto anche dal Pm Giuliano Mignini, altro protagonista del documentario, che, nel raccontare lo svolgimento della vicenda, si interroga (e si risponde) sul perché Amanda decise di accusare il proprietario del pub. La stessa figura del Pm apre poi lo scenario ad altre riflessioni: alla fine del suo racconto, che si conclude all’interno di una chiesa, augura alla Knox e a Sollecito, se innocenti, di dimenticare il prima possibile ciò che hanno patito, ma se dovessero essere colpevoli, gli ricorda che esiste un processo oltre la vita, senza appelli o revisioni. Verrebbe da ricordare che si vive nel “qui ed ora”, e forse sarebbe più auspicabile assistere ad una giustizia terrena.

L’intento dei registi è stato quello di rappresentare l’enorme aspetto mediatico che si è creato intorno alla vicenda, e lo hanno fatto in maniera oggettiva, le immagini e i filmati sono reali, tra cui anche molti inediti; hanno voluto sottolineare l’aspetto sensazionalista di tutta questa triste storia, un aspetto che più di tutti si respira dalla figura del reporter Nick Pisa, giornalista britannico del Daily Mail, che ha seguito il caso dal primo all’ultimo giorno. Un personaggio che, ammettiamolo, un po’ di perplessità la suscita. Quando gli viene chiesto come sia riuscito ad impossessarsi del diario di Amanda scritto in carcere, si fa sostenitore dei principi giornalistici di  non poter rivelare mai le sue fonti; poi però, con un atteggiamento pseudo accattivante, afferma che per un giornalista avere il nome in prima pagina, su un caso di tale portata mediatica, è come fare sesso, e continua ammettendo che i giornalisti riportano quello che gli viene detto senza appurare la veridicità dei fatti, altrimenti il rischio è quello di dare il vantaggio alla concorrenza. Dichiarazioni che alle orecchie di un giornalista italiano, impegnato a rispondere ad un albo professionale con delle regole deontologiche ed etiche che prevedono l’obbligo inderogabile di rispettare la sostanziale verità dei fatti e a verificare le sue fonti, non penso suonino poi così bene.

In questo scenario non manca certo Raffaele Sollecito, l’unico italiano fra tutti che decide di parlare esclusivamente in inglese ed essere doppiato da un esterno. Anche lui pone l’accento su questo sfrenato sensazionalismo, che non solo gli ha fatto vivere un vero e proprio inferno ma, citando testuali parole, “lo ha fatto diventare da semplice fanatico di computer ad una sorta di stella del cinema”, che lui fermamente rifiuta sentendosi “ancora dentro ad una tragedia”.

Il filmato mostra il disordine che si è venuto a creare nello svolgimento delle indagini, il problema della contaminazione delle prove, confermato dalle dichiarazioni dei due periti esterni il Dott. Conti e la Dott.ssa Vecchiotti, che hanno fatto sì che la scena del crimine non fosse asettica. Intorno a tutto questo i registi ci deliziano con le varie opinioni che si vennero a scatenare oltreoceano, tra i riferimenti al “bunga bunga” fino alla figura di un Trump esaltato che invitava a boicottare l’Italia e a sostenere un coinvolgimento del Presidente degli Stati Uniti in merito a quanto stava succedendo nel nostro paese; per poi passare alla risposta pungente del legale di Rudy Guede, l’Avv. Walter Biscotti, il quale, dispiaciuto dal fatto che gli americani volessero dare lezioni di Diritto, ricorda loro che nel 1308, mentre il tribunale di Perugia era la prima sede della facoltà di giurisprudenza d’Europa, in America in quel periodo “forse disegnavano i bisonti nelle caverne”. Un intervento, tra l’altro, quello del difensore dell’ivoriano, che risale a prima del marzo 2015, quando la Knox e Sollecito vennero assolti definitivamente, e lo si capisce infatti qualche minuto dopo: alla domanda se la difesa di Guede sia stata buona o meno, Biscotti sottolinea che l’ivoriano sta per scontare la sua pena, mentre gli altri due devono ancora affrontare un processo.

Gli autori del documentario hanno tenuto a precisare che non volevano dare dei giudizi sulle sentenze o sulle dinamiche dell’omicidio, non volevano cimentarsi in una ricostruzione volta a ricercare la verità o a colmare i dubbi che, nonostante l’assoluzione, continuano a persistere in una parte dell’opinione pubblica. Blackurst e McGinn hanno voluto mostrare come la vicenda abbia assunto una piega enorme di spettacolarizzazione mondiale e lo hanno fatto con il supporto di materiale autentico e fedele. Probabilmente per i fervidi sostenitori della colpevolezza della Knox e di Sollecito poco importa questo aspetto, dall’altro lato il dubbio che persiste riguarda soprattutto la motivazione della condanna di Guede: la giustizia italiana ha fatto il suo corso dichiarando i due ragazzi innocenti per non aver commesso il fatto, quindi l’ivoriano è stato condannato per “concorso in omicidio” con…..???

di Livia Ciatti