La vera storia del Canaro della Magliana (e non quella che circola in giro)

E’ in questi giorni nelle sale cinematografiche,“Dogman”, l’ultimo film di Matteo Garrone: le cui immagini potenti e la storia altrettanto potente sono ispirate liberamente a uno dei peggiori fatti della cronaca nera romana, quello del Canaro della Magliana. Garrone ha preso spunto dalla realtà –senza volerla assolutamente raccontare- per una riflessione sulla violenza, sul male, che volutamente non si colloca neanche a Roma e che non parla nemmeno il romanesco dei suoi protagonisti veri. Potrebbe essere successo ovunque, purtroppo.

Ma per quanto il film si sia voluto allontanare dalla realtà, ha ovviamente riportato a galla una storia terribile e il dolore di una famiglia che ha perso un figlio. Perchè quella che accadde (e che spesso è raccontata molto male nei libri e sul web) è una storia nera impossibile da dimenticare, perché -come ha scritto Maurizio Gallo sul “Tempo”, “più che realtà è la fantasia che fa paura. CN vi racconta allora la storia vera, sulla base degli atti processuali confluiti poi in un libro, “Sangue sul Tevere“, che pochi anni fa il vostro cronista scrisse con Armando Palmegiani e Vincenzo Mastronardi per Sovera.

I fatti veri cominciano in un giorno qualsiasi di febbraio 1988, il 17, quando Giancarlo Ricci, detto er puggile (nella foto sotto), un ragazzone di quasi 27 anni, dice alla mamma che sta arrivando per pranzo e sparisce dentro Roma. Lo ritroveranno per caso alle prime ore del giorno dopo, nella discarica abusiva di via Belluzzo, quartiere Magliana. Semi-carbonizzato, mutilato, legato: si pensa subito alla malavita organizzata. Partono le indagini, le retate nel quartiere. Un ragazzo compie passi falsi: si chiama Fabio Beltrano e conferma che quel giorno stava con Giancarlo, andavano a comprare droga da Pietro De Negri, er canaro, un piccolo pregiudicato che ha aperto una toelettatura per cani in via della Magliana 253. E De Negri che dice? Parla di una rapina organizzata con Ricci e poi finita male, per cui lui è fuggito e amen. Non regge. È notte alta quando il dirigente della Squadra Anti-rapine, Antonio Del Greco, lo provoca e lo fa confessare: “De Negri cambiò voce, sembrava uscita dall’oltretomba”, ricorda.

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A Regina Coeli l’assassino, in un memoriale, racconta la sua vita e il suo delitto, di cui è orgoglioso. Dice che lui è una persona corretta, leale, onesta. Che Ricci invece era un prepotente, un violento. Che, con la scusa di rapinare uno spacciatore che sarebbe andato a trovarlo di lì a poco, gli aveva proposto di nascondersi in una delle gabbie per cani, per coglierlo di sorpresa e rapinarlo. Scattata la trappola, aveva invece narcotizzato Ricci coi vapori della benzina, poi mutilato alle mani e ai genitali con le cesoie; racconta che le torture -con Ricci vivo- erano durate 7 ore, che lo aveva picchiato con una sbarra, gli aveva messo lo shampoo dei cani nel cranio, di tutto. E intanto pippava cocaina come un pazzo. Ma traspare anche, incredibilmente, tutta la sua ammirazione per la vittima, quando scrive: “E’ noto a tutti il suo sorriso infame seguito da un destro professionale”. Un racconto talmente forte, talmente morboso, che finirà col sovrapporsi alla realtà vera, ai fatti. La gabbietta per i cani, che De Negri utilizzava per asciugarli dopo il bagno, era infatti veramente troppo piccola ed un ragazzone come Giancarlo (vestito con abiti invernali) non ci sarebbe mai entrato, tantomeno volontariamente: e pure se fosse, come avrebbe potuto uscirne agilmente per compiere la rapina? Poi le gabbie, al contrario di quanto il canaro scriveva sul memoriale, risultavano integre, mentre lui asseriva che Ricci ne aveva sfondata una nel tentativo di liberarsi. Ma vogliamo parlare di trasportare il cadavere attraverso la finestra che dava sul cortile? Ci sarebbe riuscito De Negri (nella foto sotto), da solo, vista la differenza di stazza rispetto alla sua vittima? E invece no, il memoriale era così potente, evocava la vendetta, la morbosità, i film di Dario Argento, che finì per essere creduto anche se era pieno di balle.

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Non bastò nemmeno la perizia medico legale di un professionista come Giovanni Arcudi -che diceva il contrario di De Negri: la morte era avvenuta dopo meno di un’ora, le amputazioni erano tutte post mortali, niente tracce di shampoo, no, non bastò niente. Le menzogne del memoriale erano così affascinanti che sono credute ancor oggi: l’orrore ci affascina e lo guardiamo, ci piace, e ci disgusta nello stesso tempo. Ma non è tutto. Forse nella storia vera quel qualcosa che non torna ha una spiegazione, la spiegazione che De Negri non era solo. A distanza di 30 anni sicuramente è difficile scoprire un complice, si possono avere sospetti, ma null’altro. Sospetti su un ragazzo tossicodipendente che dice di non conoscere il canaro ma gli abita vicino, che mentre aspetta Ricci nella sua auto, là davanti al negozio di De Negri, riceve l’indicazione, sempre da quel canaro che non conosceva, di andare a parcheggiare l’auto di Ricci mentre lui era scappato; auto che però viene parcheggiata dopo più di 2 ore, quando la distanza da coprire era di solo 400 metri. Un ragazzo che il giorno dopo va a trovare il padre di Giancarlo, insieme a quel De Negri che non conosceva, per sviare le indagini. Sospetti, solo sospetti.

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Così, su Giancarlo Ricci è stato detto di tutto, ma la fonte è sempre er canaro. Lui non può difendersi. “Purtroppo gli ho fatto le mani grosse”, si dispera Vincenzina, la madre, che da sempre dice che De Negri, da solo, non può aver sopraffatto suo figlio e che dovevano essere almeno in quattro per riuscirci e per motivi del tutto estranei al rapporto col canaro (motivi che raccontiamo nel libro). De Negri avrebbe fatto da capro espitatorio. Ricci, d’altronde, non era uno stinco di santo, ma nemmeno il boss del quartiere. E non era stato l’autore del furto nel negozio di vestiti accanto alla toelettatura, tanto è vero che è bastato controllare la fedina penale di quest’ultimo, mentre preparavamo il libro, per scoprire che non aveva scontato un giorno di carcere per quella faccenda. Ricci aveva rubato lo stereo al canaro, come scrive lui nel memoriale? Gli aveva picchiato il cane a morte? Aveva il suo stereo, sì, ma il cane, al momento dell’intervento della Polizia, non aveva problemi. Basta questo, per uccidere?

Ma perché De Negri, comunque, ha raccontato così tante bugie? Perché aveva bisogno di sentirsi grande, era un Davide che voleva sentirsi Golia. Non solo. Perché le perizie dissero che aveva un disturbo paranoide: aveva scelto Ricci come suo persecutore. Perché quel giorno sniffava e sniffava, fino a confondere quello che fece davvero con quello che avrebbe voluto fare. Una storia assurda, ma vera. La realtà, come spesso accade, però, ci delude: e allora meglio credere alle fantasie di De Negri. In fondo, ne abbiamo bisogno, perché non c’è niente di meglio che far confluire tutto il male di una città in una persona sola. E’ un esorcismo collettivo, ma quanti se ne sono accorti?

di Fabio Sanvitale e Armando Palmegiani