di Daniele Spisso
La tragica vicenda giudiziaria dell’avvocato Domenico Zarrelli, nipote di una delle vittime del massacro, Gemma Cenname, e ritenuto per anni l’autore dell’assassinio di sua zia e quindi del triplice omicidio di via Caravaggio a Napoli del 29 ottobre 1975, iniziò ad appena 2 giorni dalla scoperta del massacro, quando in questura si presentò Eugenio Laudicino. Laudicino era un sarto che risiedeva in via Caravaggio. Il 10 novembre 1975 riconobbe sui giornali la Lancia Fulvia coupè di Domenico Santangelo, una delle tre vittime della strage. L’auto non era parcheggiata nel garage condominiale del palazzo e una pattuglia della polizia l’aveva trovata circa due settimane dopo, in sosta nei pressi del porto di Napoli, chiusa regolarmente a chiave, senza tracce di sangue e con la batteria scarica. Laudicino sostenne di aver visto l’auto del Santangelo la notte stessa della strage: lui rincasava, all’1:30 del mattino, quando incrociò in via Caravaggio una Fulvia coupè guidata a velocità incredibile (a momenti la vettura investiva il sarto, che era a bordo della sua Fiat 500) da un tipo di corporatura “piazzata” e con molti capelli in testa. Due caratteristiche che sembravano combaciare con Domenico Zarrelli.
La testimonianza però non regge: anzitutto perché Laudicino sostenne, anche dopo aver visto in questura l’avvocato Zarrelli, che non avrebbe mai potuto riconoscere il tizio che guidava l’auto (la scena si era verificata di notte ed era stata troppo veloce – gli investigatori però omisero questa precisazione nel verbale del teste); in secondo luogo, perché il sarto parlò di una Fulvia rossa e con una striscia nera sulla fiancata, mentre l’auto del Santangelo era amaranto e senza strisce nere sulla fiancata; in terzo luogo, perché l’auto fu lasciata nei pressi del porto di Napoli la mattina del 29 ottobre ’75 dallo stesso Santangelo: la vettura era in avaria ed inoltre le chiavi della Lancia furono trovate nell’appartamento di via Caravaggio; in quarto luogo, perché l’assassino uscì dall’appartamento alle 5 del mattino e non all’1:30: lo dimostrarono gli orologi elettrici dell’appartamento, rimasti bloccati quando l’omicida, andando via, aveva staccato il contatore; in quinto luogo, perché Domenico Zarrelli non riusciva ad entrare comodamente in una Fulvia coupè, data la sua altezza notevole (fu fatto un esperimento in via Caravaggio che lo dimostrò). Ma per gli inquirenti tutto questo non contava nulla. Così come non vollero credere neanche all’alibi dell’avvocato Zarrelli, che fu confermato. Zarrelli infatti era al cinema quella sera, in compagnia della sua fidanzata e rincasò sul tardi insieme a lei, a piedi.
Domenico Zarrelli presentava alle mani alcuni segni: lui sostenne di esserseli procurati perché, qualche giorno prima della strage, era caduto sull’asfalto mentre spingeva l’auto in panne, lungo un tragitto in città che presentava un selciato un po’ particolare. Gli investigatori invece si convinsero che tali segni fossero stati prodotti da un morso del cagnolino Dick, soffocato dall’assassino di via Caravaggio assieme ai suoi padroni. I periti nominati dal magistrato analizzarono scrupolosamente le mani del sospettato e alla fine dettero ragione a Zarrelli. Ma gli inquirenti non vollero prendere in considerazione il parere dei loro stessi periti.
Per spiegare una presenza di Domenico Zarrelli all’interno dell’appartamento di via Caravaggio fino alle 5 del mattino e far collimare il tutto con la dichiarazione del sarto Laudicino, gli inquirenti sostennero che il sospettato si era recato due volte nel luogo del triplice delitto: il 29-30 ottobre ne era uscito all’1:30, il 30-31 ottobre alle 5. A fornire una testimonianza che aiutò in questo senso gli investigatori fu (nel maggio del ’76) un vigile urbano, Franco Arfè. Ma il teste si rivelerà inattendibile, oltre ad avere una brutta “fama” alle sue spalle: Arfè era responsabile di estorsione aggravata continuata ai danni di un commerciante.
Gli investigatori sostennero che Zarrelli si trovava nell’appartamento del delitto fino alle 5 del mattino per disseminare false prove a suo discarico. Un’accusa inattendibile. E che anzi prova maggiormente quanto il sospettato non poteva essere l’autore della strage: nell’interno del triplice delitto furono trovate, stampate nel sangue delle vittime, impronte di scarpa numero 42, mentre Zarrelli portava il 46; furono trovati mozziconi di sigarette senza filtro marca Gitanes, ma Zarrelli fumava le HB con filtro; furono trovati frammenti di vetro di occhiali da vista forse appartenenti all’assassino, Zarrelli invece non portava occhiali da vista; furono trovate impronte digitali su due bottiglie presenti nella stanza dell’aggressione a Domenico Santangelo: tali impronte digitali non appartenevano né alle vittime né a Domenico Zarrelli.
In un verbale, comparve scritto che un’inquilina del palazzo del massacro aveva visto allo spioncino della sua porta l’assassino dei Santangelo mentre questi fuggiva. La descrizione del personaggio in questione combaciava con le caratteristiche fisiche di Zarrelli. Ma la teste disse di non aver mai raccontato questo episodio agli investigatori. Fu inventato da qualcuno e aggiunto di proposito.
Il movente del triplice delitto fu inquadrato in una richiesta di denaro rifiutata: secondo gli investigatori, Domenico Zarrelli, in seguito alla sua vita dispendiosa, era perennemente a corto di soldi e spesso li chiedeva in prestito alla zia, Gemma Cenname. La sera del 29 ottobre 1975, si era recato a farle visite e, dopo una richiesta di prestito finanziario rifiutato dalla donna, aveva perso la testa, uccidendo lei, il marito di lei e sua cugina in un impeto di rabbia (non risparmiando neanche il cane Dick).
Ma il movente si rivela inverosimile e dunque inattendibile: Domenico Zarrelli faceva una vita dispendiosa ma non era mai a caccia di soldi e non chiedeva prestiti a nessuno, né a sua zia né ad altra persona, come fu ampiamente provato. Inoltre, la sera del massacro, l’assassino stava discutendo con Domenico Santangelo, la prima vittima ad essere aggredita. Se le cose fossero andate come ipotizzarono gli inquirenti, Zarrelli avrebbe dovuto intavolare un discorso con sua zia, Gemma, e non di certo con il marito di lei, che tra l’altro lo Zarrelli neanche conosceva.
Domenico Zarrelli venne arrestato il 29 marzo 1976 e rinviato a giudizio due mesi dopo. Il 9 maggio 1978 venne condannato all’ergastolo dalla Corte d’Assise di Napoli; il 6 marzo 1981 fu assolto per insufficienza di prove dalla Corte d’Assise d’Appello di Napoli; il 9 gennaio 1984 venne assolto con formula piena dalla Corte d’Assise d’Appello di Potenza; il 18 marzo 1985 la Corte di Cassazione riconobbe Domenico Zarrelli innocente, confermando la sentenza del tribunale di secondo grado di Potenza.
Il 31 marzo 2004 il Tribunale Civile di Napoli condannò il Ministero dell’Interno ed il Ministero della Giustizia a risarcire Domenico Zarrelli di complessivi 24.878,80 euro per rimborso spese e di complessivi 1.341.255,73 euro per risarcimento danni.
www.cronaca-nera.it
Leggi anche:
LA STRAGE DI VIA CARAVAGGIO A NAPOLI
STRAGE DI VIA CARAVAGGIO: INTERVISTA ESCLUSIVA ALL’AMICA DI ANGELA SANTANGELO
LA STRAGE DI VIA CARAVAGGIO: LE PISTE INVESTIGATIVEù
LA STRAGE DI VIA CARAVAGGIO: QUANDO “TELEFONO GIALLO” PORTO’ IN TV LA STRAGE DI VIA CARAVAGGIO
LA STRAGE DI VIA CARAVAGGIO: LA PROCURA SA IL NOME DELL’ASSASSINO?
UN ASCIUGAMANO, UN BICCHIERE E DUE STRANI MOZZICONI DANNO UN NOME ALL’ASSASSINO DI VIA CARAVAGGIO