Enzo Tortora, il calvario di un uomo per bene. Era il 1983, noi lo ricordiamo così.

tortora di Fabio Sanvitale direzione@calasandra.it

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18 giugno 2013

Ce la ricordiamo tutti e d’altronde sarebbe impossibile dimenticarsela, quella faccia pietrificata, all’uscita dal comando dei carabinieri di via in Selci, a Roma: era il 17 giugno del 1983, trent’anni fa. Era la faccia di Enzo Tortora,  appena arrestato per droga. Sarebbe stata, anche, l’estate di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori. Una brutta estate. Ma i telegiornali di quel giorno ci lasciarono tutti senza parole: ma come, lui? Sì, lui. Proprio lui. L’avevano buttato giù dal letto alle 4 del mattino, all’Hotel Plaza. Avevano aspettato ore prima di farlo uscire, perché ci fosse la parata di giornalisti e telecamere a guardar bene. Dissero che Tortora era amico a affiliato di Cutolo, contro la cui organizzazione camorristica, la Nco, era diretto quel maxiblitz di giugno, l’ “Operazione Portobello”: 856 arresti.

Ma Tortora era solo un presentatore televisivo, di quelli davvero bravi, creativi. “Portobello” non era il solito format comprato dall’estero, ma un’idea sua che faceva 22 milioni di telespettatori: una cosa immensa. Forse il buonismo di quel tipo di tv non stava simpatico a tutti. Forse lui era uno che preferiva stare  appartato, un po’ snob. Non andava alle serate, non beveva e, più che la cocaina, sniffava un po’ di tabacco.

Ma gli italiani cominciarono a convincersi che, se avevano arrestato Tortora, un motivo doveva pur esserci; per quell’idea borbonica e istituzionale della Giustizia che abbiamo, per cui lo Stato ha ragione ed il cittadino arrestato ha sempre qualcosa da farsi perdonare. Non era vero, ma Giovanni Arpino (“tempi durissimi per gli strappalacrime”) e Camilla Cederna si schierarono subito coi colpevolisti. Enzo Biagi lo difese con un pezzo memorabile.

Lo accusavano, invece, tre tipi che si definivano da soli. Uno era Giovanni Pandico, che aveva fatto fuori due impiegati comunali perché tardavano a dargli un certificato, schizoide e paranoico (paranoico: vi dice niente?). Un altro era Pasquale Barra, detto “o animale”, una belva, 67 omicidi tra cui quello di Francis Turatello, cui aveva aperto la pancia come un capretto. Il terzo era Gianni Melluso, detto “il bello”, amante della bella vita e degli abiti firmati.

Ah, già, le prove. Controlli bancari, pedinamenti, intercettazioni telefoniche? Macchè. Pentiti.
Grazie alle leggi, lievitarono da 1 a 19. Ognuno diceva qualcosa: Tortora ha rubato i soldi raccolti per il terremoto dell’Irpinia, ha uno yacht comprato con i guadagni dello spaccio, si incontra con Turatello, Pazienza e Calvi scambiando valigette di droga e soldi. Un detenuto, Domenico Barbaro, aveva spedito dei centrini fatti da lui a Portobello. Andarono persi, glieli rimborsarono pure, ma Pandico spiegherà ai magistrati che i centrini erano un modo in codice per indicare una partita di coca da 80 milioni.

Poi c’era l’agendina di Giuseppe Puca, detto “‘o giappone”, professione killer, su cui c’era il numero di Tortora. Ma l’agendina era della donna di Puca, il nome era “Tortona” e il numero –incredibile, nessuno ha controllato – non era il suo.

Nel frattempo l’inchiesta della Procura di Napoli mostrava le prime crepe: quelle, tragiche, degli errori di persona. Non uno ma 216, tanto che alla fine i rinviati a giudizio saranno solo 640.

Arrivarono i radicali, fecero eleggere Tortora a Strasburgo, trasformandolo nel simbolo di una battaglia per la giustizia, quella vera.

17 settembre 1985. Arrivò la sentenza d’Assise: fu una mazzata, dieci anni per traffico di droga. Ma si aprì la seconda crepa, se è vero che dei 640 imputati ne vennero assolti ben 120. Tortora si dimise da eurodeputato, rinunciò all’immunità e tornò in Italia a farsi arrestare.

15 settembre 1986. La sentenza d’Appello: Enzo Tortora (come dimenticare quando fissò la Corte e scandì: io sono innocente, spero con tutto il cuore che lo siate anche voi”?) veniva assolto per non aver commesso il fatto, mentre si apriva la terza crepa delle indagini e altri 114 imputati venivano assolti.
Un innocente era stato massacrato da due Pubblici Ministeri (Felice Di Persia e Lucio Di Pietro), un Giudice Istruttore (Giorgio Fontana), dal Pubblico Ministero d’aula (Diego Marmo), dal Presidente di Corte d’Assise Luigi Sansone.

tortoraIl 20 febbraio 1987 Tortora tornò in tv, ancora con Portobello. Ci guardò tutti, nella telecamera, e disse: “dove eravamo rimasti?”. Era un modo per ricominciare, ma anche per non dimenticare che lui sarebbe stato lì, anche per tutti quelli che erano dentro senza ragione.

Enzo Tortora morirà il 18 maggio 1988, nella sua casa milanese di via Piatti 8, a Milano, più di malagiustizia che di cancro ai polmoni. Il giudice Fontana, dopo un’inchiesta del Csm sul suo operato si è dimesso sdegnato e ora fa l’avvocato; Di Pietro è Procuratore Generale di Salerno, ed è stato anche Procuratore Nazionale Antimafia. Di Persia è in pensione. Sansone presiede la sesta Sezione Penale di Cassazione, Marmo è in pensione dopo esser stato Procuratore Capo di Torre Annunziata. Nessuno ha pagato. Lo Stato non ha concesso il risarcimento danni agli eredi Tortora. Pandico è uscito l’anno scorso, Barra grazie a Dio è ancora dentro ma come pentito, Melluso entra ed esce dal carcere ed ha chiesto scusa alle figlie del presentatore: “lui non c’entrava nulla, di nulla, di nulla. L’ho distrutto a malincuore, dicendo che gli passavo pacchetti di droga, ma era l’unica via per salvarmi la pelle. Ora mi inginocchio davanti alle figlie“. La risposta di Gaia: “resti pure in piedi“.

Se cercate le ceneri di Tortora sono lì, al Cimitero Monumentale di Milano. Si è fatto cremare insieme ad una copia della “Storia della Colonna Infame” di Manzoni.

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