Banda della Magliana, il “segreto criminale” di Raffaella Notariale e Sabrina Minardi: intervista a Raffaella Notariale

Raffaella Notariale

Raffaella Notariale, in questa intervista ho prima di tutto un desiderio. Partire con le “domande leggere”, domande forse un po’ impersonali e generali, che non si addentrano ancora nel tuo libro, scritto con Sabrina Minardi e intitolato Segreto criminale – La vera storia della Banda della Magliana, edito Newton Compton. Domande che riguardano, in particolare, il momento in cui hai/avete deciso di scrivere questo libro. “Magari è un libro quello che ci vuole”, ti disse Sabrina Minardi nel settembre 2009. Ti è rimasto addosso un aneddoto o un ricordo particolare di quel momento?


Le interviste che ho in parte sbobinato e in parte trascritto per realizzare questo libro sono cominciate lo scorso autunno, qualche giorno dopo il nostro riavvicinamento, mio e della signora Minardi. L’avevo persa di vista, dopo averla incontrata nel 2006, quando l’avevo intervistata per la Rai. Poi, con mia grande sorpresa, lei mi telefona nel settembre del 2009. È agitatissima, si spiega male, farfuglia. Dice che si è ferita, che si è ferita volontariamente, che è ricoverata nell’ospedale Forlanini, che spera che non ce l’abbia con lei perché era sparita e aveva cambiato numero, che vorrebbe incontrarmi.
Ci vado il mattino dopo. La Minardi è ricoverata in psichiatria, me l’ha detto lei: ha tentato di togliersi la vita e l’hanno ricoverata lì. Arrivo in anticipo rispetto all’orario delle visite, ma un medico gentile mi fa entrare lo stesso un po’ prima, crede io sia una parente, gli spiego che sono un’amica, mi dice che troverò Sabrina nella sala mensa.
Lui sparisce svelto in una stanza, io procedo lentamente. C’è un gruppo di infermieri che chiede a un uomo scalzo e con i jeans bagnati di pipì se vuole fare una doccia. Lui non capisce. È italiano, il problema non è la lingua, ma lui non capisce lo stesso. Posso sdraiarmi? chiede. Un’infermiera gentile gli parla lentamente e gli fa notare che sporcherebbe il letto perché ha camminato scalzo. Non gli dice che ha i calzoni bagnati di urina. È garbata questa cosa, penso, mi colpisce la delicatezza di quell’infermiera. Lui si accarezza la testa con una mano, ripetutamente. Poi dice sì, i piedi, sì.
Sì alla doccia?
Sì, ripete confuso, sempre accarezzandosi la testa.
Ma io mi distraggo, mi sento osservata. Mi giro e c’è una signora sui 45 anni con degli enormi occhi chiari. Mi fissa. È come se stesse per dirmi qualcosa, ma non dice niente. La guardo e annuisco un po’, come per invitarla a parlare, ma lei resta immobile. Mi fissa e basta. Allora sto un po’ lì, mi pare scortese girarmi dopo la bella lezione di morbidezza dell’infermiera, ma la signora continua a tacere ed io poi mi giro. Devo cercare la Minardi. La trovo.
Ecco, di quell’incontro ricordo la pesantezza dell’ospedale, con gli odori forti, le persone in attesa e, ancor più, dei dettagli lievi, quasi inutili che ho notato nel reparto psichiatrico. Mi son rimaste impresse perché pensavo: ma che ci fa la Minardi qui? Io le ho parlato a lungo, l’ho conosciuta: non sono un medico, ma questo non è il suo posto. Un posto come questo le annebbia il cervello, può solo distruggerla.

La mole di documenti, non soltanto cartacei, che hai consultato e con la quale hai organizzato il tuo “apparato giornalistico” è immensa. Penso soprattutto alle note di fine capitolo e alla bibliografia. Quale criterio hai adottato per essere il più possibile completa nella tua scrittura ed esaustiva nel tuo modo di fare informazione? Sulla Banda della Magliana in generale, si è scritto molto.

Sono una disordinata impenitente, non ho un vero e proprio metodo. Nel pieno del lavoro, il pavimento di casa era costellato da mucchietti di fogli. Erano estrapolati da atti, informative, parti di sentenze, ma c’erano anche interviste sbobinate, appunti di fonti riservate, lanci d’agenzia, fotocopie di articoli e di pagine di libri. Tutti divisi per argomento e personaggio. Ho cercato di evitare di riportare gli avvenimenti sui quali si è disquisito per anni, cercando di dare spazio al lavoro che avevo svolto in prima persona fino a quel momento, supportandolo, il più possibile, con i documenti che mi ero procurata. Sulla Banda della Magliana si è scritto moltissimo, ma questo libro è diverso. Non è un elenco di nomi, date e misfatti. Libri così ne sono usciti diversi e molti ben fatti. In “Segreto criminale” a parlare è una persona che mette a nudo il suo fardello di errori e di orrori.

Mi puoi raccontare le sensazioni che hai provato al tuo primo incontro con Sabrina Minardi, in quell’intervista del 2006?

Non so, ero concentratissima, attenta a qualsiasi passante, mentre mi avvicinavo alla meta, e poi anche dopo, ai dettagli della casa, all’intonazione della sua voce… Ho avvisato una sola persona di quel che stavo facendo, Pier Giuseppe Murgia, autore di “Chi l’ha visto?”. L’ho chiamato a un centinaio di metri dall’appartamento della Minardi, per qualsiasi evenienza, come si suol dire. Una volta ottenuto il suo indirizzo da una fonte riservata, sono andata e basta, non ho adottato nessun accorgimento, ma avevo timore perché non sapevo chi avrei trovato, in quale condizioni, con quale predisposizione d’animo. Però parlare con questa donna era un passo necessario. Lei era stata l’amante di Enrico De Pedis per quasi dieci anni. Non poteva non sapere. Se pure mi avesse mandato a quel paese, non potevo non provarci. Mi sono rilassata un po’ dopo aver messo piede nell’appartamento. Quel giorno, quando alla fine la Minardi si è decisa a ricevermi, sulla soglia della porta mi si è piazzata davanti e ha cominciato a toccarmi la pancia, i fianchi, la schiena. Ci ho messo un po’ a capire che voleva controllare se avessi fili, registratori, cose del genere. Poi mi ha fatto accomodare e ha cominciato a farmi mille domande. Era gentile, mi sono rilassata e le ho permesso di “studiarmi”. Io volevo sapere delle cose da lei, volevo sapere chi era stata lei, cosa aveva visto e sentito. Considerato che, dal niente, avevo bussato alla sua porta, trovavo giusto che volesse capire chi fossi.

Chi è Sabrina Minardi adesso e chi era invece allora, all’epoca in cui era l’amante di Renatino? Una donna che ha certamente avuto una vita molto dissoluta ma inevitabilmente si è trovata ad ascoltare e a vivere molte cose in intimità col boss. È, in fin dei conti, una donna che ricorda moltissimi particolari, come tu scrivi.

Nel 2006 era una donna molto provata dagli eccessi, malandata. Aveva avuto un incidente nel 2002, era stata in coma, operata più volte, ma non era riuscita a recuperare l’uso del braccio destro. Si era dunque lasciata andare bruciando tutti i soldi messi da parte, aveva perso la forma fisica, era depressa. Il giorno dopo la messa in onda, fui convocata in Procura dal dottor Luca Tescaroli, che si stava occupando del processo per l’omicidio di Roberto Calvi. Il magistrato voleva chiamare la Minardi a processo, ma il presidente della Corte decise che aveva ascoltato già troppi teste e non se ne fece nulla. La donna venne poi minacciata, mi ha raccontato, cambiò casa, numero di telefono, decise di ricominciare da se stessa, voleva disintossicarsi. Quando l’ho rivista era peggiorata moltissimo. Non è solo un’opinione. Basta confrontare l’intervista del 2006 con quella che le feci nel 2009 per Rai News 24: solo tre anni. Tre anni lunghissimi per la Minardi che ne porta addosso i segni. Nel suo caso, rimandare è un vero peccato. Purtroppo, sta sempre peggio, sia fisicamente che psicologicamente.

Il bandito, il Presidente, il bambolotto. Renato o Renatino. Qual è il ritratto di Enrico De Pedis, il boss dei Testaccini morto giovanissimo? Possiamo tracciarne un identikit e spiegare ai lettori, per una maggiore chiarezza, la definizione di “batteria dei Testaccini” in rapporto all’espressione “Banda della Magliana”?

Nel gergo malavitoso capitolino di quegli anni, la batteria era un gruppo. Un gruppo di delinquenti. C’erano la batteria di Testaccio, della Magliana, del Trullo, di Primavalle… Confluirono in un’unica banda che divenne presto un’organizzazione, mentre la denominazione venne coniata dalla stampa. La banda divenne potentissima, era ramificata e controllava tutta Roma e dintorni. Gente poverissima, senza neanche la luce elettrica in casa, si ritrovò a girare in Ferrari. I soldi diedero alla testa a tutti e gli ideali di condivisione vennero ben presto a mancare. C’era chi sperperava la propria parte e chi la reinvestiva. Cominciarono i malumori che, a lungo andare, diedero vita a una faida interna che smembrò la holding criminale. La Banda della Magliana vera e propria fungeva da mera manovalanza e fu smembrata con gli omicidi e grazie agli arresti e all’apporto dei pentiti. Nella banda del Testaccio, invece, in quella che era la batteria del Testaccio e poi si è mossa in modo autonomo rispetto all’organizzazione, non c’è un solo pentito. I suoi componenti sono morti o in carcere, purtroppo irriducibili. E’ per questo che non si sa tutto sui Testaccini. Erano loro la frangia più pericolosa e potente, coloro che avevano entrature nei Palazzi del Potere, conoscenze in Vaticano, tra i massoni della P2, tra imprenditori, politici, agenti dei Servizi Segreti. Erano loro la “mente”, quelli “ammanigliati”.

Qual era il legame tra De Pedis e il Vaticano secondo le testimonianze di chi lo aveva conosciuto? Penso al racconto di Antonio Mancini, per esempio.

Antonio Mancini è stato un “malavitoso di razza” e poi un pentito la cui attendibilità è stata acclarata e più volte confermata dalle risultanze. Nell’ottobre del 2005 disse di sapere che c’erano legami tra il gruppo di De Pedis, i “testaccini” della banda della Magliana e ambienti del Vaticano.  Nel 2007 spiegò meglio che nel 1983, cioè quando Emanuela Orlandi sparì, lui era in carcere. E in carcere si diceva che la ragazza era “robba loro”, cioè che l’aveva presa “uno dei loro”. Esattamente un anno fa, interrogato, ha aggiunto ancora che il sequestro di Emanuela Orlandi venne gestito da De Pedis “nel quadro di problemi finanziari con il Vaticano”. Mancini ha trascorso più anni in carcere che fuori. Inizialmente molto amico di De Pedis, poi divennero nemici. Al punto che Mancini esultò quando seppe che erano riusciti a uccidere Renatino. Mancini, come gli altri pentiti, era un uomo della banda della Magliana, più che dei Testaccini. Quindi non aveva fonti dirette, ma ascoltava “radiomala”. Le voci, insomma, gli arrivavano. E quel che sentiva era che esisteva un legame tra De Pedis e il Vaticano.

Che cosa pensi delle “donne della banda della Magliana”. Di queste figure femminili che affiancano i boss e vivono la loro vita. Oltre a Sabrina Minardi mi viene in mente, per esempio, Fabiola Moretti.

Hanno sempre avuto un ruolo secondario, di supporto. Ma sentivano e vedevano, è chiaro. Sarebbe un’ottima cosa se Fabiola Moretti, per esempio,  ricordasse qualcosa…

A proposito dell’incredibile sepoltura di Enrico De Pedis in territorio sacro, nella basilica di Sant’Apollinare a Roma, puoi ripercorrere il giorno in cui sei riuscita ad accedere al luogo e che cosa hai pensato – giornalisticamente – di fronte a quella tomba?

Ho avuto i documenti, prima di tutto, che mi hanno sconvolta e “preparata” a tutto quel che è venuto dopo. Ma non li ho avuti tutti insieme. Le cose sono accadute con una lentezza estenuante, continui rinvii e preoccupazioni varie mi hanno portata a tirare un sospiro di sollievo, a rilassarmi un po’ di più ogni volta che, invece, probabilmente avrei dovuto stare in tensione, emozionarmi. Quando andai a ritirare anche le foto, in particolare, tirai un gran sospiro di sollievo. Non ero tesa per il documento in sé, ma per le molteplici prove che dimostravano di quale calibro fosse il legame tra De Pedis e il Vicariato di Roma. Giornalisticamente era un bel colpo, certo, l’autore storico di “Chi l’ha visto?”, Pier Giuseppe Murgia, accennò ai documenti e alle foto inedite nella conferenza stampa di apertura del programma. I servizi che seguirono lanciarono la stagione della trasmissione, arrivavano complimenti e attestazioni di stima, ma anche telefonate e lettere anonime, minacce varie.  Ero più preoccupata  del contraccolpo che, puntuale, poi è arrivato. Su tutto, pensavo continuamente a come proteggere le fonti. Insomma, ansiosa come sono, non mi son goduta il momento. Ero indaffarata, sotto pressione, in cerca di altri tasselli. E’ così che, poi, sono arrivata a Sabrina Minardi.

Che cosa pensi del segreto che là si nasconde, che cosa pensi anche della sua riapertura, considerate anche le ultime agenzie uscite sul caso, quelle del 12 novembre 2010. In breve, l’unico accertamento su quella tomba riguarderebbe la riesumazione?

L’eventuale apertura della tomba è inutile ai fini delle indagini sulla sparizione di Emanuela Orlandi. Il Vicariato di Roma ha fatto sapere che, nel caso in cui i familiari di De Pedis lo volessero, autorizzerebbe lo spostamento delle spoglie di Renatino e che, nel caso in cui la magistratura italiana ne facesse richiesta, permetterebbe l’ispezione del sarcofago. Ma in quella cripta, in quella bara, non ci può essere nient’altro che le spoglie di De Pedis. Emanuela Orlandi è sparita nel giugno del 1983, Renatino è stato ucciso nel febbraio del 1990 e la salma è stata spostata a Sant’Apollinare nel mese di aprile. A sette anni di distanza, nessuno si sarebbe preso la briga di andare a cercare gli eventuali resti della povera 15enne e portarli nella stessa tomba del cosiddetto Presidente. Non avrebbe avuto alcun senso.
Parliamo di Emanuela Orlandi, la quindicenne vaticana rapita il 22 giugno 1983. Quale idea tu ti sei fatta del rapimento di Emanuela Orlandi, del suo nesso con la Banda della Magliana, e quale, infine, potrebbe essere il nesso tra il sequestro di Emanuela e la tumulazione di De Pedis: in particolare, che cosa pensi di quel nulla osta per la sepoltura di De Pedis nella basilica arrivato dal cardinal Poletti, ricordando che la tomba di De Pedis era al Verano prima di approdare nella magnifica basilica settecentesca?
Prima che la ragazzina sparisse, qualcuno aveva già seguito altre tre donne cittadine vaticane. La stessa Emanuela era stata seguita. I suoi amici lo dissero subito agli investigatori. All’epoca si diceva: “A Roma non si muove foglia che banda della Magliana non voglia”. Ma parlare di banda della Magliana è riduttivo. In realtà, i componendi della banda fungevano da manovalanti, erano i Testaccini ad avere entrature nei palazzi del potere. Erano loro l’agenzia del crimine al servizio dei poteri forti, deviati. Il Cardinale Ugo Poletti sapeva bene chi era Enrico De Pedis, tant’è che sconsigliò i funerali e l’immediata sepoltura nella basilica di Sant’Apollinare per evitare clamori. Suggerì di fare un giro lungo, in pratica. E così avvenne. Il segreto che spiega le vere motivazioni per le quali, da oltre vent’anni, De Pedis riposta in pace in una meravigliosa basilica, non è stato scoperto nei dettagli. Non ancora. Dirò di più, temo fortemente che non si scoprirà mai perché il Vaticano non collaborerà mai. Sabrina Minardi dice che De Pedis e Monsignor Marcinkus avevano affari comuni, dice che “cosavano” insieme. “Cosare”, facevano cose… I Testaccini, come i mafiosi, avevano investito del denaro nel Banco Ambrosiano di Roberto Calci. Denaro che era transitato nello Ior, l’Istituto delle Opere di Religione, la banca vaticana, e finito a finanziare il sindacato polacco Solidarnosc per volontà di Giovanni Paolo II. Quel denaro non rientrava, da qui la necessità di ricattare i piani alti della Città di San Pietro.

E che cosa puoi dire del favore che Renatino avrebbe fatto al cardinale. Tu lo scrivi ad un certo punto: “In Procura sanno che il Vaticano è fondamentale per la risoluzione del caso di Emanuela Orlandi”. E in tutto questo, come si colloca, secondo te, la figura di Sabrina Minardi?

In Vaticano c’è un dossier sulla sparizione della Orlandi. Nel corso di una telefonata intercettata, un monsignore dice a Raul Bonarelli, numero due della sicurezza vaticana finito poi sotto inchiesta, di non dire una parola a riguardo. L’intercettazione registra una telefonata del 12 ottobre 1983, alle 19,53. Raoul Bonarelli parla con un interlocutore chiamato capo e questo capo gli intima di non dire nulla ai magistrati, nulla di quel che sa. In Vaticano non possono non sapere e si preoccupano anche che ciò che sanno resti all’interno delle mura leonine. La Minardi, in tutto questo, era una donna con la mente annebbiata, asservita a De Pedis. E il favore che Renatino avrebbe fatto al cardinal Poletti, ad oggi rimane un segreto. La prova che rapporti eclatanti e misteriosi ci siano stati è in quella sepoltura.
In vita Renatino avrebbe espresso il desiderio di “finire là”, in quella basilica…
E’ quel che ha raccontato la vedova De Pedis agli uomini della Dia, la Direzione Investigativa Antimafia. Nel libro ho riportato l’informativa.

All’interno della redazione della trasmissione televisiva di RaiTre “Chi l’ha visto?” per la quale hai lavorato per diversi anni, un ruolo fondamentale – oltre a quello dei colleghi che se ne sono occupati – è stato indubbiamente ricoperto dall’autore storico e unico Pier Giuseppe Murgia. Fu proprio lui, lo leggo nel libro, a indirizzarti e a ricordarti l’esistenza di un articolo uscito su “Il Messaggero” qualche tempo prima. Un articolo che indicava, “nella basilica vicino a Piazza Navona”, il luogo dove era stato sepolto un boss della Banda della Magliana. E tu riuscirai a trovare proprio quell’articolo, firmato da Antonella Stocco, nelle tue notti “consumate” in emeroteca. Tutto questo per chiederti quanto importante è, nel proprio lavoro, avere accanto persone, colleghi e capi che stimolano, indirizzano, consigliano. Come Pier Giuseppe Murgia.

Pier Giuseppe Murgia è il mentore. Una persona a cui devo molto professionalmente e umanamente. Pronto a discutere, ad ascoltare, a guidare. E poi è fissato con la giustizia, si appassiona, si entusiasma, ci crede! Non ce ne sono molti, così; mi ha insegnato tanto e, al di là, dell’ambito lavorativo, gli sono davvero affezionata. In una situazione diversa, con un capo diverso, probabilmente non avrei potuto lavorare così bene o, comunque, difficilmente mi sarebbe stato riconosciuto quantomeno il merito della perseveranza.

C’è un documento, nel tuo libro, che mi ha fatto riflettere. È datato 3 ottobre 2005 e firmato “Monsignor Piero Vergari”. Si tratta di alcune righe riprese dal sito dello stesso monsignor. Vorrei chiederti questo: verso la fine dell’estratto, Vergari scrive, a proposito della tumulazione di De Pedis in una delle camere mortuarie dei sotterranei di S. Apollinare, che anche in quella circostanza doveva essere valido, come sempre, il solenne principio dei Romani “Parce sepulto”, che lui traduce con “perdona se c’è da perdonare a chi è morto e sepolto”. Ma l’espressione “Parce sepulto” si traduce, molto semplicemente e letteralmente, con “Perdona il sepolto”. Mentre nella sua traduzione Vergari aggiunge la frase “se c’è da perdonare”: una frase davvero pleonastica. Pleonastica anche per te?

Ridondante e inutile. Sono d’accordo. Tipico di certi personaggi del Vaticano. Anche quando hanno torto marcio, sono talmente prudenti nelle considerazioni, da parlare o scrivere senza dire nulla. Tanto poi si confessano e il senso di colpa, se mai l’hanno avuto, svanisce. Non mi piace colpire nel mucchio, ci sono dei sacerdoti eccezionali che lavorano alacremente: credo molto nelle persone, nei singoli, molto poco alle organizzazioni, ai gruppi. Il marcio è ovunque e il Vaticano non fa eccezione.

E riallacciandomi alla domanda precedente, vorrei anche che tu ricordassi che cosa recita il diritto canonico in materia di sepoltura su suoli sacri.

“Can. 1242 – Non si seppelliscano cadaveri nelle chiese, eccetto che si tratti di seppellire il Romano Pontefice oppure, nella propria chiesa, i Cardinali o i Vescovi diocesani anche emeriti”.

A proposito della figura di monsignor Marcinkus, vorrei chiederti se ti risultano reazioni da parte del clero dopo la sua celebre battuta nel corso di un’intervista al giornale “The Observer” (25 maggio 1986): “Non si può governare la Chiesa con le Ave Maria”. Oppure sul fatto che lui fosse “Marpa”, nome in codice massonico…

 

 

Ci sono dei libri dettagliatissimi sull’argomento. Non approfondisco a tal punto la figura di Marcinkus, ma risulta da più parti che il monsignore era tanto temuto quanto malvisto. Quella battuta è rimasta celebre e le reazioni sono fioccate da più parti.

 

 

Come scrivi tu nel libro, “In Vaticano pare siano sempre pronti a difendere i morti, da De Pedis a monsignor Marcinkus, ma si guardano bene dal parlare quando vengono interpellati” (n.d.r. P. 157)

Purtroppo è vero. Le rogatorie internazionali della magistratura italiana che cercava di capire cosa fosse accaduto alla povera Emanuela Orlandi sono state respinte.

Che cosa, invece, emerge dal tuo libro, a proposito della scomparsa di Mirella Gregori?

Il legame tra la sua sparizione e quella della Orlandi esiste da sempre. Accadde anche una cosa strana. Raoul Bonarelli, lo stesso uomo invitato dal suo capo a tacere qualsiasi conoscenza del caso Orlandi, venne riconosciuto dalla signora Arzenton, la mamma di Mirella Gregori. La signora, provatissima dalla malattia che, da lì a poco, l’avrebbe condotta alla morte, disse ai magistrati di aver riconosciuto Bonarelli nell’uomo che s’intratteneva spesso al bar con la figlia e con la sua amichetta Sonia. La signora insisteva, era sicura. Poi, in un confronto all’americana, si tirò indietro. Qualcuno ipotizzò che, forse, poteva essere stata minacciata: lei sapeva che stava per morire e voleva tutelare almeno la figlia che le era rimasta. Ovviamente, sono supposizioni senza fondamento, ma l’episodio rimane quantomeno strano, ecco.

Un altro aspetto molto interessante raccontato nel tuo libro riguarda alcuni casi di altre donne che all’interno della Città del Vaticano, tra la primavera e l’estate del 1983, hanno avuto la sensazione di essere seguite. Si era poi saputo che i servizi segreti francesi avevano avvertito i colleghi del Vaticano sul rischio di rapimento di un loro cittadino. È incredibile, questo. Ce ne puoi parlare?

I Servizi Segreti francesi avevano allertato i colleghi del Vaticano sulla possibilità che poteva essere rapito un loro concittadino. Le famiglie più in vista vennero avvertite e quando le tre donne pedinate prima di Emanuela riferirono di aver avuto l’impressione di essere state seguite, i capifamiglia adottarono delle contromisure drastiche. Una di loro, per un periodo, fu mandata a vivere a Bolzano… Nessuno, purtroppo, avvisò gli Orlandi. Il signor Ercole era un messo, un postino. Nessuno credette che avrebbero potuto rapire lui o qualcuno dei suoi familiari. E, invece, Emanuela era una preda fin troppo semplice. Molto giovane, senza grilli per la testa, con giornate molto simili, orari fissi tra il liceo, la scuola di musica, la messa…

A libro terminato e pronto per collocarsi sugli scaffali delle librerie italiane, quali sono stati i commenti di Sabrina Minardi?

Ha difficoltà a leggerlo. Ho raccolto la sua testimonianza attraverso svariati incontri. Ogni volta, aveva il tempo di riprendersi. Quando ha cominciato a leggere quel che aveva detto, invece, si è depressa moltissimo. E’ lucida. Leggere a mente sgombra tutto quel che ha fatto e che ha detto la fa stare molto male: si chiede come sia potuta arrivare a trattarsi così male.

Puoi ricordare in quale modo ha contribuito la testimonianza di Sabrina Minardi in materia di indagine sul caso di Emanuela Orlandi?

Ha permesso una riapertura delle indagini che hanno permesso ai magistrati di iscrivere tre persone nel registro degli indagati. In 27 anni dalla sparizione di Emanuela Orlandi, con tutte le difficoltà del caso dovute soprattutto al tempo trascorso, nessun altro inquirente era potuto arrivare a tanto.

Quando, nel 2009, hai rivisto Sabrina Minardi, lei ti raccontò del suo passato, e in particolare di alcune sue serate a base di sesso e droga in compagnia di persone importanti. Ti fece nomi potenti, che sono stati riportati nel libro. E poi ti parlò di questo soffitto di specchi in cui erano piazzate le telecamere con cui venivano filmati di nascosto gli incontri con questi personaggi (n.d.r P. 256). Tu le chiesi in quali mani fossero questi filmati, e lei che cosa ti rispose?

Mi rispose che quei filmati erano stati voluti da De Pedis. Che era lui a prendere le cassette.

Ad un certo punto spunta fuori, nel racconto della Minardi, anche il nome di Augusto De Megni. A proposito di che cosa?

La Minardi racconta di averlo conosciuto. Dice che, per un periodo, ha lavorato in Umbria e che in un’occasione ha conosciuto Augusto De Megni che, poi, l’ha presentata a Licio Gelli.

Un episodio agghiacciante che ti ha confidato la Minardi racconta di una bambina assassinata, forse una zingarella. Puoi raccontarci questo fatto terrificante? Si è mai arrivati all’identità di questa bambina?

Non si è mai arrivati a identificare la bambina, purtroppo. Il racconto è stato molto doloroso sia per lei che raccontava che per me che ascoltavo. Se il libro venisse letto da qualcuno dei suoi parenti, si potrebbe sapere di più, ma non è un’eventualità così probabile.

In questo libro, così come è stato pubblicato, c’è qualcosa – secondo te – che non è ancora stato detto e che tu, ora, vorresti dire approfittando di questo spazio?

Troppo spesso ci si dimentica di Emanuela Orlandi. Lei è la vittima. I suoi familiari sono le vittime. Oggi come oggi, troppo spesso si gioca con teorie fantomatiche. Qualche cronista addirittura nega l’esistenza e la potenza dei testaccini, annullando trent’anni di indagini. Trovo sia indecente e ripugnante, una guerra tra poveri pietosa e a farne le spese continuano ad essere gli Orlandi: la sparizione di Emanuela grida giustizia da troppi anni.

 

Segreto criminale – La vera storia della banda della Magliana
di Raffaella Notariale con Sabrina Minardi
Pagine: 322 – euro 12,90

Casa editrice: Newton Compton