Bambini scomparsi: la speranza di ritrovarli non muore mai

jaydi Fabio Sanvitale direzione@calasandra.it

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19 marzo 2013

A volte ci vogliono vent’anni per risolvere un caso di scomparsa di minore. Un tempo infinito per chi aspetta, che però ci insegna che anche casi come quello di Denise Pipitone possono, quando meno te lo aspetti, trovare di colpo una soluzione. Oggi vi raccontiamo tre storie vere, tre storie incredibili, storie successe sulla strada per andare a scuola, che sembrano uscite da qualche film e che invece sono accadute davvero: e dove c’erano molte meno probabilità di scoprire la verità rispetto a quello che è successo a Mazara del Vallo con la piccola Denise (sequestrata, lo ricordiamo, il 1 settembre 2004).

Siamo in California. E’ il 10 giugno del 1991 quando Jaycee Lee Dugard, 11 anni, sparisce mentre aspetta l’autobus per andare a scuola. I testimoni diranno alla polizia che la ragazzina è stata caricata a forza su un’auto, da due persone: e questo, per molto tempo, sarà tutto quello che se ne saprà. Agosto del 2009, diciotto anni dopo: un uomo di quasi sessant’anni attrae l’attenzione di due poliziotti. Sta distribuendo dei volantini religiosi all’università di Berkeley ed ha con sé due bambine. Fin qui niente di strano, ma a dimostrazione che il dna non risolve tutto e l’intuito conta ancora molto, ecco che qualcosa non torna, ai due uomini. Gli chiedono i documenti, quello esita, dice e non dice; così fanno un controllo in Centrale e scoprono che ha precedenti per reati sessuali.

Gli ordinano di andare nell’ufficio dello Sceriffo, con tutta la famiglia. E qui un’altra figlia trova la forza di dire chi è davvero: Jaycee Lee Dugard, una “missing child”, come direbbero gli americani. Il presunto padre, Luis Garrido, viene arrestato con la moglie Nancy per sequestro di persona, stupro ed un’altra mezza paginata di reati. Le indagini metteranno a fuoco la vita di un fanatico religioso. I vicini, in piena notte, spesso lo sentivano pregare o cantare a voce alta. Dietro casa c’era ancora, parcheggiata, l’auto utilizzata 18 anni prima per rapire Jaycee, che per tutti questi infiniti anni aveva vissuto in una tenda dietro casa Garrido. Una tenda piena di robaccia e rifiuti, dove aveva messo al mondo due figlie, d’età compresa tra gli 11 e i 15 anni. ”Quello che è successo all’inizio può sembrare una cosa disgustosa – riesce a dichiarare Garrido – ma poi ho costruito la mia vita intorno a questo e tutto è completamente cambiato. Sentirete la verità dalla voce della stessa Jaycee e resterete impressionati da questa storia”. Non è andata così: è finita con lui in galera e i genitori di Jaycee che, sconvolti, hanno ritrovato una figlia.

etanAdesso ci spostiamo a New York, dove il 25 maggio 1979, anche qui sulla strada per una fermata d’autobus, sparisce Etan Patz, di 6 anni. Etan  non è il primo bambino ad esser stato sequestrato negli Stati Uniti. Ma diverrà il centro di una grande mobilitazione per ritrovarlo ed il simbolo di tutti i bambini scomparsi negli Usa: il suo volto è stato il primo a comparire sui cartoni del latte. Etan chiedeva ai suoi genitori di poter essere più grande, di andare a scuola da solo. E quel giorno di fine maggio era per lui un traguardo: era uscito dalla sua casa di Prince Street con una moneta da un dollaro in tasca ed il permesso di andare da solo a scuola. Un giorno di festa, che fu per lui l’ultimo giorno.

Etan sparì e per mesi non se ne seppe nulla. Per anni. Sei anni dopo, nel 1985, si scoprì che la baby sitter di casa Patz aveva un amico che era pedofilo. Il sospettato si chiamava Jose Ramos e anni dopo sarebbe finito in galera per reati sessuali: ammise che quel giorno del 1979 aveva portato un bambino a casa per abusarne, ma non riusciva a ricordarsi se fosse Etan o no. Proprio non riusciva. Al 90% poteva essere lui, ma chi se ne ricordava più? Ed in assenza di un cadavere, in assenza di prove, le indagini dovettero fermarsi ad un passo dalla verità. Intanto, nel 2001, Etan fu dichiarato legalmente morto, e i genitori avviarono una causa civile contro Ramos. La vinsero nel 2004 e l’uomo fu condannato a pagare 2 milioni di  dollari di risarcimento. Per anni, ogni 25 maggio, il padre di Etan ha mandato in carcere a Ramos una foto di suo figlio, con su scritto: «Cosa hai fatto al mio piccolo ragazzo?».

Nel 2012, a sorpresa, salta fuori un nuovo sospettato. Si chiama Othniel Miller, è un amico di Ramos ed al 127B di Prince Street – sulla stessa strada di casa Patz, dunque- aveva il suo negozio di carpenteria. Un negozio nella cui cantina abusava dei bambini. La polizia per quattro giorni butta giù mezzo scantinato alla ricerca di tracce, ma niente. Si scava, si usano anche i cani che fiutano i cadaveri, si cerca una traccia qualsiasi che porti al cadavere del bambino. Niente.

Nelle stesse settimane, però – siamo a maggio del 2012 – la polizia d New York riceve anche la telefonata del parente di un uomo che si chiama Pedro Hernandez: nel 1979 lavorava anche lui in un negozio sulla Prince. Al suo parente, Pedro aveva confessato di aver ucciso un bambino, ma non ne aveva detto il nome. Sembrava una traccia interessante, comunque tanto valeva provare. Lo  fermano ed Hernandez tra le lacrime confessa: aveva attirato Etan nel negozio con una caramella e poi l’aveva strangolato. E se il cadavere non s’era trovato è perché lo aveva fatto a pezzi e lo aveva gettato nella spazzatura. A novembre scorso è stato ufficialmente accusato di sequestro e omicidio: ma tutto si regge sulla sua confessione ed un mese dopo, in attesa del processo, Hernandez si è dichiarato innocente. Ventiquattro anni dopo, il caso è aperto.

nataschaUltimo caso, quello più conosciuto. E’ il 2 marzo del 1988, a Vienna, quando torna al mondo, ormai adulta, una bambina sparita otto anni prima: Natascha Kampush. “Quella mattina ero triste, la sera prima avevo litigato con mia madre – dichiarerà in un’intervista televisiva – quando uscii non pensai a fare pace con lei subito. Vicino alla Melangasse vidi la sua macchina, pensai di andare sul marciapiede opposto, non so perché, ero angosciata, ma non lo feci. Lui mi afferrò, cercai di gridare, non mi uscì nessun suono. Mi disse che non mi sarebbe successo niente se fossi stata zitta. Poi mi ha detto che si trattava di un sequestro e se i miei genitori avessero pagato un riscatto, mi avrebbe subito liberata. Ma io sin dal primo momento pensai che mi avrebbe ucciso”.

Poi Wolfgang Priklopil la portò nella cella sotterranea. “Lui mi ha lasciato mezz’ora al buio. Ero disperata e furiosa. Ero arrabbiata con me stessa per non aver cambiato marciapiede. C’era un ventilatore. All’inizio quel continuo rumore era insopportabile, mi sono quasi venuti attacchi di claustrofobia, ho battuto contro il muro con i pugni e con le bottiglie di acqua. Era orribile e se lui, prima o poi, non mi avesse portata nella casa per darmi un po’ di libertà di movimento, forse sarei impazzita”. Conosciamo la storia: quando Natasha riesce a fuggire, otto anni di sevizie più tardi, Priklopil si uccide.  Era la fine di un incubo, ma sarebbe stato anche l’inizio di una lunga e mai conclusa serie di polemiche: iniziata con la scoperta che la madre di Natasha conosceva Priklopil e forse aveva avuto una storia con lui. Polemiche proseguite con il libro di Alan Hall e Michael Leidig, “Girl in the cellar”, in cui si parla del ritrovamento di alcune foto scabrose di Natasha bambina, foto scattate dai suoi stessi familiari. La storia del sequestro nasconderebbe, come una scatola cinese, un’altra storia, anch’essa molto pesante…

Gli strascichi di questi otto anni non sono ancora finiti, come non finiranno facilmente le domande su tutte le occasioni avute dalla ragazza per fuggire: e non sfruttate. Le passeggiate con il suo sequestratore, le gite in montagna insieme, la preoccupazione di lei di rovinare, fuggendo, la vita della madre e degli amici di Priklopil…

Ma Natasha alla fine è tornata, come Jaycee. E forse sapremo la verità su Etan. Gli anni passano, alle volte sono tanti, alle volte insopportabilmente troppi per un padre e una madre. Ma non è mai troppo tardi. A volte i miracoli succedono.

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