Pasolini: non chiudete quelle indagini. L’assassino lasciò il suo dna?

Che succede nel caso Pasolini? Le indagini furono riaperte nel 2010. Dunque? Lo chiediamo a Simona Ruffini, la criminologa che come consulente della parte civile chiese e ottenne la riapertura dell’inchiesta. “Ufficialmente non ci sono novità. Ma le risultanze delle nuove analisi del dna sui reperti trovati sulla scena del crimine forse dicono qualcosa di nuovo. Risultanze che non ci sono state confermate, ma pare che un profilo sia stato individuato. Qualcuno che era sulla scena del crimine e che magari potrebbe essere ancora in vita”. Sarebbe davvero una grossa novità: “Abbiamo avuto sentore, quando c’è stato l’interrogatorio di Pelosi, che ci fosse qualcosa”, aggiunge Ruffini. E poi: “Il fatto che anche Pelosi sia stato interrogato può significare che gli sono state contestate delle cose. Uscendo dal tribunale lui ha ripetuto che Pasolini lo conosceva già: e questo non depone a suo favore, perché fa pensare alla premeditazione, non tanto all’incontro fortuito…”.

Pelosi questo lo aveva già scritto anche nel suo libro (“Io so…come hanno ucciso Pasolini”, uscito nel 2011), in cui raccontava che il suo incontro e la sua frequentazione col grande scrittore e poeta (e tantissime altre cose) risaliva in realtà a diversi mesi prima dell’omicidio, avvenuto nella notte del 2 novembre 1975. Vero? Falso? Certo, è Pelosi a dirlo. Ma siccome lo ha detto, è chiaro che i fatti dell’Idroscalo di Ostia, i fatti di quella notte, assumono una luce diversa. Pelosi, lo ricordiamo, per la legge italiana è l’unico responsabile di quel delitto, che peraltro confessò e per il quale ha fatto 7 anni di galera. Una verità che non ha mai convinto nessuno.

Nel marzo 2009 venne chiesta l’ennesima riapertura dell’inchiesta e Ruffini si mise all’opera con l’avvocato Stefano Maccioni. Nel 2010 saltò fuori, dal letto di morte, la testimonianza dei fratelli Citti, fraterni amici del poeta, che s’erano fiondati all’Idroscalo a fare domande a quelli che vivevano nelle baracche circostanti, per sentirsi dire che erano state più persone, quella notte; che c’erano più urla intorno alle invocazioni disperate di Pasolini.  Quello stesso anno Claudio Marincola del “Messaggero” strappò ad alcuni ex abitanti delle baracche la confessione che anche loro avevano visto e sentito la stessa scena.  Ma a quelli dell’Idroscalo, in quel freddo novembre del ’75, nessun poliziotto o giudice chiese nulla con convinzione, loro si fecero i fatti loro e Pelosi pagò per tutti. Era stata una storia di froci. Amen.

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Un’inchiesta che dura cinque anni è un’inchiesta che non si giustifica nei tempi, è un lavoro portato avanti fiaccamente. Il giudice Minisci, che la conduce, è stato finora apprezzabilmente riservato con i giornalisti. Nulla è filtrato dalle silenziose stanze del Palazzo di Giustizia. Ma cinque anni sono cinque anni: mica uno. E così, ecco che mille firme (alcune illustri: Dacia Maraini, Ettore Scola, Nichi Vendola, Marco Risi, Moni Ovadia, Esterino Montino, Maurizio Landini) sono state consegnate nei giorni scorsi al Procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone, per chiedere che si definisca la situazione: “Volete archiviare? No, andate avanti. Non archiviate? Ditecelo”, questo è il senso della petizione, spiega Simona Ruffini. Le indagini che hanno fatto riaprire il caso, con informazioni e documenti inediti e di prima mano, Ruffini le ha intanto messe nel libro scritto con Maccioni e il giornalista Domenico Valter Rizzo, “Nessuna pietà per Pasolini” (a questo link ci si può anche iscrivere per ricevere aggiornamenti costanti sulle fasi delle indagini e documenti inediti).

Ma sulla base di cosa è stata riaperta l’indagine? (continua)

di Fabio Sanvitale