Lidia Macchi: non sarà facile dimostrare che Binda è l’assassino.

Lidia Macchi era studentessa di legge alla Statale di Milano e capo guida scout nella sua parrocchia, a Varese. Ma per il suo omicidio –avvenuto nel 1987 nel viottolo di un bosco vicino Varese- non sarà facile incastrare Stefano Binda, 48 anni. No, nemmeno un po’. Vediamo perché Binda, all’epoca quasi coetaneo di Lidia,  potrebbe cavarsela, se il processo fosse oggi.

  1. All’epoca le indagini si indirizzarono su un sacerdote dello stesso giro di Comunione e Liberazione in cui era Lidia Macchi (don Antonio Costabile), che aveva fornito un falso alibi alla Questura. Si rivelò però estraneo ai fatti. Anche Binda fu sentito. Diede un alibi che fu preso per buono, ma non verificato: disse che fino all’epifania era stato in montagna con gli amici di CL (il delitto è del 5 gennaio, il corpo viene ritrovato il 7). Se lo avessero fatto, forse ora non saremmo qui. Oggi infatti gli amici di allora non ricordano più se fosse con loro ad Argelato o no, tranne uno (che lo ricorda). Alibi inverificabile.
  2. Lidia aveva 20 anni quando fu uccisa. Come sapete c’è una poesia che accusa oggi Binda: fu spedita alla famiglia proprio in quei giorni di gennaio. La polizia non disse, all’epoca, che era stata anche violentata. Quei versi contengono un passaggio che sembra indicare proprio questo: è quando dice “…in questa notte di gelo, che le stelle son così belle, il corpo offeso, velo di tempio strappato, giace“. Il “velo strappato” sarebbe la perdità della verginità durante la violenza. Detto questo, Binda non ha ammesso di aver scritto la poesia, che però gli viene attribuita da una perizia grafologica. E’ l’indizio più forte contro di lui: ma è un indizio, forte, non una prova. Parliamo di interpretazioni, ricordiamocelo.
  3. Un’altra perizia, merceologica, dice che il foglio su cui fu scritta la poesia proviene da un blocco ad anelli trovato in casa Binda (…lo diciamo sempre che ogni tanto bisogna buttare le cose e non conservare tutto!), ma ancora una volta il problema è dimostrare sempre che quel verso sia un riferimento chiaro alla violenza subita da Lidia Macchi.
  4. “Stefano è un barbaro assassino”: questa frase invece è scritta in un foglio trovato dentro un’agenda del 1987, a casa Binda, in cui mancano solo le pagine dal 4 al 7 gennaio. Anche questa grafia è sua, va bene, ma, ancora, è un indizio. Non è mica la confessione di cui Repubblica ha scritto.
  5. E il dna? Eccola, la domanda che tutti si fanno. Sì, c’è anche stavolta del dna. Sul bavero della giacca di Lidia e poi quello che è rimasto sulla busta che conteneva la poesia. Ad oggi, quel che si sa è che il secondo non è di Binda, il che significa che ha scritto la lettera, ma qualcun altro l’ha imbustata per lui. La brutta notizia è che i campioni di sperma prelevati dalla scena del crimine all’epoca sono stati distrutti (follia: il caso era ancora aperto) nel 2000, per errore. Insomma, il dna non aiuta: anzi, esclude Binda.
  6. Con solo questi indizi in mano (anche se sono più d’uno), arrestarlo è stato certo un azzardo da parte della Procura. Un azzardo calcolato: l’oppressione del carcere potrebbe essere, secondo i giudici, il macigno per farlo cedere. Binda ad oggi non ha confessato nulla. I giudici ci stanno provando. Dopo 30 anni è difficile, ma non si sa mai. E’ un uomo con un passato problematico e la sua impronta religiosa potrebbe aver un bel peso, in questa faccenda. Se è stato lui, il peso del rimorso. Forzare così l’indagine è però il frutto delle poche cose che la Procura in mano. L’inizio di una partita a scacchi con l’indagato, che però lascia un buon spazio alla difesa.
  7. I giudici ricostruiscono così i fatti: Binda avrebbe ucciso per un groviglio mentale, perché Lidia Macchi si era fatta violentare, corrompendo così la sua purezza. A quel punto l’avrebbe accoltellata per punirla, senza farsi sfiorare dall’idea che la bestialità l’aveva commessa lui.

Ma dimostrarlo non sarà facile.

di Fabio Sanvitale