Dopo l’attentato a Bruxelles bisogna blindare gli aeroporti? Come?

Dopo il fuoco e i morti dell’ aeroporto Zaventem di Bruxelles la prima cosa che è istintivamente venuta in testa a molti è: e se facessimo i controlli di sicurezza già all’ingresso? Può essere una buona idea, può esserlo a metà. In fondo, questo non impedirebbe ad un’auto-bomba di esplodere davanti al marciapiede, prima di quei controlli. In realtà, infatti, stiamo parlando solo di fare controlli più accurati: perché nessuno, al mondo, può davvero impedire al 100% un attentato terroristico in un posto incontrollabile per definizione come un aeroporto o una stazione ferroviaria tipo Termini o Milano. Sono spazi troppo grandi.

La prima bomba a distruggere un volo commerciale – ci ricordano quelli del Washington Post –  “fu un esplosivo a base di nitroglicerina nascosto nel bagno di un volo della United Airlines da Cleveland a Chicago, nel 1933”. Da allora, il problema si è posto ma è stato realmente affrontato solo dopo che, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, il terrorismo palestinese fece vedere a tutti com’era facile dirottare un volo o far saltare un aeroporto. Per quanto quasi dimenticato dalla memoria collettiva e istituzionale, Fiumicino ne sa qualcosa. Forse ci siamo dimenticati i morti degli attentati palestinesi del 1973 e del 1985.

FIUMICINO 253

 

 

 

 

 

 

E’ una buona idea, allora, anticipare i controlli a chiunque entri in aeroporto, per qualsiasi motivo? D’altronde, se per l’attentato a Bruxelles hanno messo nel mirino la folla in attesa di imbarco, quell’autobomba prenderebbe di mira quelli che si stanno sottoponendo ai nuovi controlli: c’è sempre, alla fine, un luogo e un modo per colpire. Fiumicino 1973 e 1985, Parigi Orly 1980 e 1983, Vienna Schwechat 1985, Tokyo Narita 1985, Mosca Domodedovo 2011: le bombe e i mitra hanno sempre cantato – o iniziato a cantare- nelle zone passeggeri (dell’attentato di Mosca si sa poco ancor oggi).

La questione non è solo dove fare i controlli, ma anche come. Dopo l’11 settembre abbiamo assistito alla blindatura delle cabine di pilotaggio, ai controlli sugli oggetti taglienti; i liquidi hanno subito la stretta che ben conosciamo dal 2006, dopo che degli attentati al perossido di acetone furono sventati. E ora?

Forse una via di mezzo per risolvere il problema c’è. Perché i controlli che conosciamo noi sono solo uno dei modi di farli. Tanto è vero che a Istanbul, nel Medio Oriente, a Mosca e in Africa i controlli ad ingresso terminal li fanno: non è una novità. Solo che sono veloci e i passeggeri non perdono tempo. Come fanno? Obiettivi mirati: se avete armi pesanti e bombe, non potete entrare. Se non ne avete, passate e poi vi sottoporrete a un secondo controllo, quello che tutti conosciamo, prima dell’imbarco (se dobbiamo imbarcarci). E’ un buon metodo, perché se è vero come è vero che gli attentatori colpiscono con quegli strumenti, sono quelli che vanno cercati (e magari anche se avete una cintura esplosiva).

Negli ultimi mesi, da Parigi in poi, gli attentatori in Europa hanno colpito un giornale, un concerto rock, un bar, un negozio di alimentari, uno stadio, un treno, una sinagoga e l’area partenze di un aeroporto. E’ proprio perché i loro obiettivi sono molto diversificati che oltre tutte le misure di sicurezza che possiamo e dobbiamo introdurre conta una cosa più di tutte: ed è l’intelligence, la capacità di prevedere le azioni criminali. Poi, oltre questa, ci sono anche i controlli.

di Fabio Sanvitale