L’investigatore privato tra analfabetismo e master

Il rilascio della licenza per esercitare la professione di investigatore privato è vincolato dal possesso di una laurea (nemmeno tutte), requisito prescritto dal D.M. 269/2010. Prima di allora era sufficiente saper leggere e scrivere. Un bel salto…All’informatore commerciale o ai titolari degli istituti di vigilanza è invece sufficiente possedere un diploma; il tirocinio forense per diventare avvocati ha una durata di diciotto mesi, mentre quello per diventare investigatore privato è di tre anni, il doppio.

Tutto ciò sembrerebbe spropositato, senonché l’aspetto più curioso è aver partorito una sanatoria per tutti quelli che risultavano titolari di licenza investigativa da almeno cinque anni alla data di entrata in vigore del decreto: ossia, costoro potevano essere in possesso anche solo della terza media che andava bene lo stesso, bastava fare un corso di aggiornamento per regolarizzarsi.

Questa disparità rappresenta – a mio modo di vedere – un oltraggio al codice del consumo e configura persino profili di illegittimità costituzionale. Un potenziale cliente potrebbe trovarsi al cospetto – infatti – di un detective con la licenza media oppure con la laurea in Scienze delle Investigazioni, tanto per fare un esempio, e questo non è accettabile perché si mette il consumatore nella condizione di non poter distinguere un professionista che ha acquisito la licenza secondo i dettati del vecchio ordinamento da quelli che hanno acquisito il titolo dopo il 2010. Non saprei se tale condotta si può qualificare come pratica commerciale scorretta e credo che sia il caso di fare intervenire l’autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM).

Sono così severo perché penso che i fautori del D.M. 269/2010 non abbiano agito nell’interesse dei consumatori, ossia dei potenziali clienti, come avrebbero dovuto fare, bensì abbiano voluto generare una strozzatura affinché vengano rilasciate meno licenze in futuro; e questo atteggiamento è decisamente illiberale. L’Unione Europea ci chiede da tempo di superare gli attuali sbarramenti all’accesso delle professioni e ci bacchetta attivando procedure d’infrazione, mentre noi difendiamo con pervicace ottusità gli albi.

Domanda: il D.M. 269 di fatto, rispetto al vecchio ordinamento (ex art. 134 T.U.P.S.), introduce ostacoli ulteriori al conseguimento dell’ autorizzazione prefettizia? Purtroppo sì.

La liberalizzazione delle professioni porterebbe, sono sempre più convinto, enormi benefici per l’occupazione e per i consumatori, ma ci sono troppe lobby che vogliono impedire questo cambiamento, pertanto l’abolizione dell’autorizzazione prefettizia è l’unica strada, a mio avviso, per ristabilire un sistema equo, a vantaggio dei tanti giovani che vorrebbero intraprendere questa professione.

In merito alla formazione – invece – il D.M. 269 ha il pregio di aver introdotto l’obbligo di aggiornarsi. I titolari delle agenzie investigative, al fine di poter ottenere il rinnovo della licenza con cadenza triennale, devono attestare la loro partecipazione a corsi di perfezionamento teorico-pratico in materia di investigazioni private che possono essere erogati da chiunque operi negli ambiti formativi. Il principio è lodevole.

La norma è – però –  troppo generica e non specifica quali caratteristiche devono avere questi corsi di formazione, la durata o altro, indica solo il tema che deve riguardare in qualche modo le investigazioni private. Troppo poco. Si poteva introdurre un sistema di Crediti Formativi Professionali (CFP) e obbligare i detective privati ad aggiornamenti continui e costanti, disciplinando con un regolamento apposito la materia.

Si assiste – invece – al proliferare di iniziative, pregevoli o squallide, prodotte da associazioni di categoria o altri organismi che, con la complicità di enti bilaterali talora ambigui, promuovono corsi di formazione a destra e a manca. Tanto vale autorizzare ufficialmente le associazioni professionali (o di categoria) a organizzare le attività di formazione previo parere favorevole del Ministero di competenza e – magari – delegare un organismo super partes, quale garante. Almeno ci sarebbe più controllo.

In questo marasma – in cui non esiste un albo professionale degli investigatori privati –  la legge n. 4 del 14 gennaio 2013 ha delegato le “associazioni professionali” a curarne la formazione, eventualmente anche attraverso l’accreditamento di enti certificatori esterni.

La svolta potrebbe essere proprio questa, ossia certificare, tramite una norma UNI, gli investigatori privati. Una procedura che consentirebbe di scorporare definitivamente gli improvvisati dai professionisti più promettenti che si possono presentare sul mercato con credenziali che ne attestano le competenze in maniera inequivocabile. Forse per questo fatica a trovare una sua logica e auspicabile applicazione la Legge 4/2013 sopra citata sulle professioni non regolamentate. Si preferisce lasciare il settore in balia di norme ambigue e illiberali perché – evidentemente – a qualcuno conviene così.

di Alessandro Cascio
Presidente Associazione Professionale Investigazioni e Sicurezza (APIS)