Delitto Bergamini: qual è il ruolo dell’autista, Raffaele Pisano?

Si parla sempre di Isabella Internò, in questa storia: ma l’altro indagato, l’autista del camion che investì Bergamini? Vediamo quale potrebbe essere stato il suo ruolo.

Cominciamo dal camion: non esiste più. Il Fiat Iveco stato rottamato il 9 novembre 2011, a Lavezzola. Questo è un fatto a favore dell’autista, perché se Pisano avesse voluto nascondere qualcosa, in tutti questi anni, crediamo che lo avrebbe rottamato molto tempo prima. Quelli che esistono ancora, però, sono i rilievi dell’incidente, e questi dicono che: la frenata dell’ Iveco non è stata progressiva ma brusca, e leggermente verso il guardrail. Pisano ha insomma cercato di non prendere Bergamini, che era sdraiato di schiena al momento dell’impatto, e contemporaneamente di non invadere l’altra corsia.

Quel giorno il suo camion non andava piano, ma pianissimo. Era partito da Rosarno: uno di quei camion che ti fanno saltare i nervi quando li becchi su una statale, perché, carico di quasi 14 tonnellate di mandarini, procedeva (lo dice il cronotachigrafo) alla estenuante lentezza di 30-35 km/h. La perizia Coscarelli sul mezzo dice che ci ha messo 15-18 metri a inchiodare e pertanto, concludono i Ris, ha trascinato il calciatore, già disteso al suolo, per 5-8 metri, tramite le sue ruote bloccate in frenata, prima di fermarsi del tutto. Per quei 5-8 metri la ruota destra è salita sopra e ha spinto in avanti Bergamini, come dimostra il sangue sull’asfalto: quello che tecnicamente è un sormontamento parziale. 

camion bergamini 2

 

 

 

 

 

 

Ma Raffaele Pisano era lì per caso o faceva parte del piano? E’ Francesco Forte a darci la risposta: si tratta di un automobilista fermo in una stazione di servizio prima del tragico km 401, per comprare le sigarette. Al momento di reimmettersi sulla statale 106, dà la precedenza al Fiat Iveco 180 di Pisano e gli si accoda. Quando gli inchioda davanti, capisce che è successo qualcosa e scende. Nell’abitacolo c’è l’autista, che riesce solo a ripetere: «Non l’ho visto, non l’ho visto». Ancor oggi Forte sa che avrebbe potuto investirlo lui, Bergamini, se solo fosse uscito un attimo prima dall’area di servizio.

Torniamo però alle parole che ripete Pisano nell cabina. Il calciatore non riporta nessun altra lesione, se non quella gravissima che investe la radice della coscia destra e l’inguine, dove passa l’arteria iliaca. A livello di possibili cause della morte la faccenda strana è però nei polmoni: l’esame istologico evidenziava già nel 2012 infatti un enfisema polmonare che in un atleta che scoppia di salute proprio non esiste e che non può derivare dall’investimento. Se ne era accorto il professor Avato nella prima autopsia, lo ripetono i periti Bolino e Testi nel 2012. Attenzione: loro parlano di un giudizio di compatibilità, non esistono reperti perentoriamente dimostrativi per tale ipotesi”. Se però le cose stanno così, allora qualcuno ha sdraiato Bergamini sull’asfalto (e qui ci vogliono due persone): mentre era già in limine vitae ( perché asfissiato tramite una busta di plastica, il che spiegherebbe bene l’enfisema?). Anche l’ultima perizia ci dice che il calciatore era morto da prima di essere investito.

Teoricamente sì,  ci si può ammazzare aspettando la morte sdraiati di schiena sull’asfalto di una statale: perché no? C’è chi fa di peggio e aspetta sui binari del treno. Non è questo il punto. E’ che, comunque, non puoi raccontare in giro che Bergamini s’è tuffato -come in piscina- sotto al camion in arrivo, se poi perizie e autopsie non trovano traccia delle ruote che sul ventre e confermano che era già morto da prima. Ma allora, se non s’è tuffato, se il corpo era già lì, perché Pisano ha detto anche lui la balla che Bergamini s’era buttato sotto il camion? E perché ha detto di averlo trascinato per 60 metri, quando i metri sono 5-8 e l’investimento non è avvenuto davanti la piazzola, ma a decine di metri da essa? Un minuto dopo il disastro dice a Forte di aver visto Bergamini già sdraiato sull’asfalto. Poi però ci ripensa e dice qualcosa che troviamo molto verosimile e che è un classico in psicologia della testimonianza: cioè si corregge e si spalma sul rapporto dei Carabinieri, che parla di suicidio. Come mai? Pisano lo spiegherà successivamente: si era «conformato alla versione dei carabinieri». In pratica, è andata così: sono i carabinieri a sbagliare per primi, messi anche sulla cattiva strada dalla deposizione della Internò che racconta il falso, e Pisano, sulle prime, non se la sente di contraddire l’Autorità e magari venire preso per bugiardo, visto che dicono che è suicidio. Gli manca il coraggio delle sue idee. Salvo poi ripensarci. Una volta capito il meccanismo, è la sua prima deposizione che è quella buona.

E poi, scusate, in che modo Pisano, anche volendo, avrebbe potuto far parte del piano? Ricordiamoci che siamo nel novembre 1989 e i cellulari non esistono. Come assicurarsi che passasse al km 401 al minuto giusto? Praticamente impossibile. Avrebbero potuto sorpassarlo prima altre auto, andava pianissimo, in fondo. Facile, no? C’era, in realtà, un solo modo per gli assassini di coordinarsi con lui: Pisano era radioamatore (nome in codice: Tucano), quindi solo così gli assassini avrebbero potuto tenersi in contatto con l’Iveco. Ma l’ipotesi è francamente improbabile: avete mai visto un assassinio così arzigogolato e peraltro in un modo che non avrebbe comunque garantito nulla? E dunque, no: Pisano è stato davvero il primo che passava. Purtroppo per lui.

Anni fa, i giudici che lo mandarono sotto processo pensavano che il calciatore fosse stato risucchiato dallo spostamento d’aria provocato dal camion, che l’autista avrebbe dovuto «suonare il clacson, spostarsi sull’altra corsia, arrestare il veicolo». Omicidio colposo, insomma. Ma il punto è questo: Pisano aveva comunque cercato di evitare l’impatto, sicuramente aveva visto Bergamini all’ultimo, ma tant’era. Così, nel 1992 fu assolto con una sentenza che, di fatto, sposava la tesi del suicidio. Oggi sappiamo invece che è omicidio, ma anche che il camionista non poteva far parte di alcun piano.

 di Fabio Sanvitale