di Paolo Cochi, Alessandro Feri, Master Evo
Nell’estate del 1982 la schizofrenia del mostro sembro’ contagiare anche i giornali, per i quali l’assassino era passato dall’individuo codardo che confeziona delitti tanto facili quanto vili, al killer freddo e spavaldo che colpisce allo scoperto mostrando una mira degna del peggiore pistolero da Far West. Che poi il delitto di Baccaiano mostrasse davvero la spregiudicatezza del serial killer non importava più di tanto, perché ormai il mito del mostro aveva raggiunto una tale rilevanza nell’opinione pubblica che ogni suggestione si sedimentava sulle precedenti in modo irreversibile. Un fatto che stava deprimendo gli stessi inquirenti, ai quali né la trappola a mezzo stampa, né la pubblicazione dell’identikit aveva portato alcun frutto. Occorreva un nuovo impulso, nuove metodologie, magari analoghe a quelle che altri stavano adottando per le principali emergenze criminali del paese…
E’ la stessa dottoressa Della Monica, da noi intervistata recentissimamente, a raccontare come fosse stata proprio lei ad insistere con il dottor Vigna affinché prendesse parte all’inchiesta, mettendo a disposizione le sue incontestabili doti investigative affinate negli anni con la lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata. Dal 3 di luglio, il dottor Vigna comincio’ ad occuparsi del caso pretendendo, ed ottenendo, che sulle indagini calasse il massimo riserbo. Al “blackout” delle fonti primarie, i giornalisti sostituirono un vero e proprio pedinamento (anche fisico) delle mosse degli inquirenti, arrivando, il 14 di luglio, a parlare di nuova pista che doveva condurre a Borgo San Lorenzo (comune del delitto del 1974) perche’ il giorno precedente, lì vi si erano recati i magistrati forse per ascoltare nuovi testimoni.
Il 16 Luglio, “La Nazione” ribadì che qualcosa di rilevante doveva essere accaduto, stando alla frenesia degli investigatori nelle ultime 72 ore. Tuttavia il cronista non era in grado di ipotizzare di cosa si trattasse. E’ l’ultimo scampolo d’informazione prima del vuoto mediatico da cui l’opinione pubblica si risveglierà solo a Novembre, con il mostro già in carcere. Un mostro pro tempore però, come vedremo tra poco.
Il 7 Novembre 1982, dalle prime pagine di tutti i quotidiani fiorentini si “ affaccio’ “ un volto rude illuminato da un sorriso sarcastico, quello di Francesco Vinci, immigrato in Toscana dalla Sardegna nel lontano 1960. Era il sorriso beffardo della balentia sarda pero’ e non quello inquietante della follia di un chirurgo sconvolto nella psiche che aveva conquistato l’immaginario collettivo fino a quel momento. Era una figura che all’opinione pubblica lasciò quasi un senso di delusione e di dubbio; una perplessità rinvigorita dalle parole dello stesso Giudice Istruttore, che, pur avendone firmato il mandato d’arresto, consigliava ancora prudenza e alle potenziali vittime di non abbassare la guardia.
Ma come c’era finito Francesco Vinci dietro le sbarre con una accusa tanto pesante? E quali erano gli elementi che avrebbero dovuto far tirare finalmente un sospiro di sollievo? Bisogna tornare a quel luglio del 1982, a quella frenesia investigativa registrata dalla stampa o piuttosto alla sua successiva brusca interruzione.
Oggi, dalle fonti dibattimentali, si apprende che quella frenesia sarebbe stata frutto di tutt’altra storia: la sparizione di una pistola passata di mano a Borgo San Lorenzo, e che nulla avrebbe avuto a che fare con il Vinci e la “scoperta” di un nuovo-vecchio omicidio del mostro datato 1968 . Ma fu proprio a quel punto che si innestò la nuova e dirompente pista che fece repentinamente abbandonare tutto il resto e calare il silenzio assoluto sulla vicenda.
Come accade normalmente in indagini cosi’ complesse, dall’autorità giudiziaria sarebbero state messe in atto verifiche indipendenti su ipotesi parallele. Cosi’, mentre i PM seguivano le tracce di quella pistola sparita, il Giudice Istruttore Tricomi, come di recente ci ha raccontato lui stesso in un’ intervista esclusiva, aveva già rinnovato la richiesta di verificare l’eventuale esistenza di altri precedenti criminali analoghi a quelli di cui ci si stava occupando, nell’ottica probabilmente di ottenere qualche nuovo indizio del misterioso assassino. Un tentativo era già stato fatto a novembre dell’81, addirittura con l’ausilio dell’Interpol per comprendere anche i casi internazionali, ma limitatamente al periodo 74-81. Nell’82, forse, la situazione contingente (aggravatasi ulteriormente per un nuovo omicidio che sembrava mettere in discussione il profiling classico del mostro) avrebbe fatto riflettere con più attenzione anche sui casi già risolti e più lontani nel tempo, con ricerche d’archivio sicuramente più approfondite.
Sarebbe stato questo input, secondo la versione ufficiale, ad illuminare la memoria di un oscuro maresciallo in forza al NCO di Firenze, che in quei giorni si presentò al giudice Tricomi con in mano un articolo di giornale inerente un vecchio processo d’appello per un caso di duplice omicidio. Quel vecchio caso, verificatosi come sappiamo a Signa il 21 Agosto del 1968, aveva molti ingredienti comuni a quelli del “maniaco delle coppiette”, ma anche un colpevole mandato a sentenza nell’Aprile del 1973 e in carcere al compimento del delitto del 1974 di Borgo. Eppure, leggendo ancora oggi la cronaca del processo a Stefano Mele, allora sembrava un altro l’uomo da battere: Francesco Vinci, lo scaltro e geloso ex amante della Locci , non certo il marito succube e semi infermo di mente che si stava giudicando come unico autore materiale del delitto.
Le stesse illazioni fatte sulla stampa dell’epoca avrebbero quindi ridestato 14 anni dopo l’intuizione del Maresciallo Fiore, facendo si che intorno al 20 Luglio del 1982 il faldone di quel processo si trovasse già sulla scrivania del magistrato Tricomi, comprensivo delle perizie balistiche e addirittura dei bossoli e dei proiettili allora rinvenuti sulla scena del crimine.
Come e’ noto, con questa versione non concordano il giornalista Mario Spezi e l’avvocato Nino Filastò, entrambi convinti che a mettere Fiore sulla strada del delitto Locci-Lo Bianco fosse stata la “manina” di un anonimo, magari il mostro stesso, che avrebbe fatto recapitare ai CC quell’articolo di giornale. Perché, si chiede Filastò, un maresciallo dei Carabinieri, che neppure aveva preso parte alle indagini del 68, illustrerebbe la sua intuizione con un vecchio ritaglio di giornale anziché con rapporti e verbali? E dove lo avrebbe trovato poi? Negli archivi dell’Arma? E’ forse uso dei CC conservare articoli di giornale dei casi indagati nel passato? Forse, ma perché allora un articolo sul processo d’appello e non uno di quelli, numerosi, che trattavano direttamente dell’omicidio?
Un’ ipotesi, questa, contraddetta da tutti i diretti interessati a partire dalla dottoressa Della Monica e dal Colonnello Dell’Amico, ma anche dallo stesso giudice Tricomi, il quale pero’ ancora oggi rammenta quell’articolo di giornale portato dal Maresciallo Fiore, pur non ricordando in effetti come lo stesso ne fosse venuto in possesso.
Recentemente, qualche arguto osservatore ha fatto notare una singolare coincidenza di date che potrebbe dare manforte all’ipotesi dell’anonimo suggeritore. Su “La Nazione” del 20 Luglio ‘82 compare infatti un trafiletto in cui i Carabinieri chiedono ad un anonimo, denominatosi “Un cittadino amico”, di mettersi in contatto con loro. La data e’ praticamente la stessa in cui venne recuperato l’incartamento del processo del 1968 a seguito dell’intuizione di Fiore: perché, imboccata una pista cosi’ rilevante, si continuerebbe a rivolgersi ad un anonimo se questo non fosse parte in causa di quella pista? Quella richiesta di collaborazione all’anonimo “Cittadino Amico” rappresenterebbe quindi un indizio a conferma della tesi di Spezi e Filasto’?
Dalla lettura del libro che lo stesso Mario Spezi pubblicherà nel 1983, sembra pero’ venire una spiegazione molto diversa per quell’appello. Spezi racconta che dopo il delitto di Calenzano cominciarono ad arrivare alcune lettere anonime, di cui tre attribuite ad un sedicente: “Amico che conosce bene la psicologia del mostro”. Le prime due incuriosirono gli investigatori, ma la terza sembrò il frutto del solito mitomane psicolabile.
In questa, infatti, l’”amico” sosteneva di aver decodificato il modo con cui l’omicida sceglieva i luoghi dove colpire, ovverosia cercando di comporre con l’iniziale di ciascuno una precisa parola. L’ ”amico” partiva da quello che in quel momento era considerato il primo delitto, Borgo, proseguiva con quello dell’Arrigo e poi con l’ultimo, all’atto dell’invio della lettera, delle Bartoline, rilevando che la parola da comporre sarebbe dovuta essere “BABBO” e che quindi i due successivi delitti si sarebbero verificati in località che iniziavano con la “B” e con la “O”. Una teoria che fece molto probabilmente sorridere i Carabinieri, cosi’ come immagino fara’ sorridere il lettore, almeno fin quando non si verifico’ il delitto successivo: quello di “B”accaiano.
Spezi continua, raccontando come la previsione azzeccata indusse a cercare di entrare nuovamente in contatto con l’anonimo, e che si tentò di farlo proprio con due appelli a mezzo stampa pubblicati qualche settimana dopo l’omicidio dell’82. L’ “Amico che conosce bene la psicologia del mostro” sarebbe dunque il “Cittadino Amico”, latore come quest’ultimo di tre lettere, e oggetto di un appello diretto dai CC proprio dopo il delitto di Baccaiano? A rigor logica tutto sembrerebbe indicare di si, smontando irrimediabilmente dunque l’acuta osservazione precedente.
A corroborare l’ipotesi di una soffiata anonima rimarrebbe quindi ben poco, forse solo un ultima flebilissima traccia lasciata su ” La Nazione” del 6 Luglio ‘82, e cioè lo scampolo di una lettera con firma femminile, ma sostanzialmente anonima, dove “l’autrice “ narrava di un episodio occorsole una quindicina d’anni prima con un uomo pressoché identico a quello dell’identikit appena pubblicato.
A ben vedere la lettera sembra solo lo sproloquio di una persona suggestionata dal caso, ma e’ singolare che, quando ancora nessuno poteva minimamente immaginare che il primo delitto fosse quello di Signa, l’anonima segnalatrice abbia voluto portare l’attenzione proprio ad un periodo risalente una quindicina d’anni prima, cioè attorno al 196768…
Dunque, quel trafiletto all’anonimo Cittadino Amico era la conseguenza di “indagini” parallele come sembrerebbe da ciò che scrive Spezi nell’ 83, o aveva davvero a che fare con l’intuizione del Maresciallo Fiore come vorrebbe la coincidenza di date? L’articolo di giornale, mostrato dal Maresciallo al giudice Tricomi, era frutto delle ricerche dello stesso sottufficiale, o gli era stato consegnato da qualche fonte più o meno anonima per rinverdirrne la memoria?
Chi scrive lascerà libero il lettore di rimuginare sulla questione, limitandosi a ricordare che già nel 1989 il giudice Rotella si preoccupo’ di smentire questa stessa ipotesi, attribuendole, dopo verifica diretta dei Carabinieri, il valore di una semplice suggestione giornalistica alimentata dalla segretezza con cui si segui’ inizialmente la pista del 68.
Comunque, ragionando più o meno per assurdo, se anche ci fosse stata una “soffiata anonima” a mo’ di ritaglio di giornale per rammentare il delitto di Signa, saremmo ben lungi dall’aver inserito un tassello fondamentale nel mosaico delle certezze (o quantomeno delle “ipotesi probabili”) di questa vicenda. Chi avrebbe potuto ricordarsi del delitto di Signa, 14 anni dopo il fatto, e comunicarlo agli inquirenti? Sicuramente un’ampia gamma di persone: per esempio un residente della zona di Signa all’epoca dell’omicidio, oppure qualche investigatore privato, piuttosto che qualche inquirente che non si occupava direttamente del caso e non voleva “rubare la scena” ai colleghi. Certo, fra una gamma di ipotetici “segnalatori” potrebbe esserci persino il mostro stesso che magari vuole rivendicare la paternità del delitto di Signa o, diabolicamente, far spostare l’attenzione degli inquirenti su un nuovo delitto controverso e con un colpevole giudicato in via definitiva. Un’infinità di ipotesi (basate a loro volta su un’ipotesi “bollata” dagli inquirenti come fantasia giornalistica) utili solamente a discutere sul “sesso degli angeli”.
Tornando ai fatti, quel che e’ certo e’ che il maresciallo Fiore sarà sufficientemente convincente perche’ il G.I. ordini di recuperare gli incartamenti di quel processo , e ancor piu’ convincenti saranno le successive analisi su perizie e bossoli che non lasceranno alcun dubbio sin da subito sul collegamento di quel delitto con i successivi del mostro di Firenze.
Il 27 Luglio del 1982, i Magistrati tornarono a confrontarsi con l’infernale psicologia del povero Stefano Mele, oramai libero dall’aprile del 1981 ed ospitato presso un ostello di Ronco all’Adige per ex detenuti indigenti. L’uomo, quasi quei 14 anni non fossero passati , ripropose la prima versione data all’indomani del delitto, e cioè quella in cui lui non solo non vi aveva preso parte, ma neppure sapeva con certezza chi potesse esserene l’autore, sebbene sostenesse che nel colloquio avuto con il figlio la sera successiva al delitto, questo gli avesse inidicato Francesco Vinci.
Con quella versione, il Mele stava di fatto azzerando le aspettative di chi lo interrogava, che per il momento non poteva piu’ contare sulla “chiamata di correo” con cui riformulare le accuse contro il Vinci per quel lontano delitto, e di conseguenza per tutti gli altri omicidi in collegati dall’uso della stessa pistola. Da quel momento, pero’, sulle spalle di Francesco Vinci cominciarono ad addensarsi tutta una serie di sospetti via e via più pesanti. Poco dopo l’interrogatorio del Mele, ossia dopo il 27 luglio 82, i Carabinieri inviarono alla Procura un’ informativa inerente il ritrovamento dell’auto del Vinci infrascata nei pressi di Casellina, vicino a Grosseto, come se l’uomo se ne fosse dovuto sbarazzare per qualche motivo certamente grave. A piu’ d’uno venne in mente un collegamento con la falsa notizia, diramata un mese prima dalla stampa, in merito ad eventuali rivelazioni sull’omicida fatte dal Mainardi in limine vitae.
All’atto di perquisire l’abitazione del Vinci, che si era reso irreperibile, interrogarono i suoi familiari. Costoro sostennero di non vedere più il proprio congiunto dalla fine di Giugno, ovverosia piu’ o meno dalla data dell’ultimo delitto del mostro… La moglie decise in quest’occasione di esporre anche una provvidenziale denuncia per maltrattamenti ed abbandono del tetto coniugale, denuncia con la quale si pote’ formalizzare un rintraccio dell’uomo oramai latitante a tutti gli effetti.
Inoltre, scavando nei precedenti del Vinci, si scopri’ che questo era stato arrestato nei primi anni ’70 per il possesso abusivo di una calibro 22, che, sebbene incompatibile con quella usata nei delitti, indicava familiarità del sospettato con questo tipo di armi. Ma si scopri’ anche che costui era uscito dal carcere proprio i primi di Settembre del 1974, e che pochi giorni prima del delitto Pettini-Gentilcore era stato protagonista a Borgo San Lorenzo di una feroce lite con i familiari di una sua ex amante. Messi i telefoni sotto controllo, si riusci’ anche ad intercettare il sospettato che era tornato a farsi sentire con i familiari, il quale pero’ in questi colloqui palesava una certa difficolta’ a comprendere tutto quell’interesse nei suoi confronti, sostenendo con la moglie di essersi dovuto allontanare per una “semplice” questione inerente il furtorapina di una autocarro e di un conseguente residuo di pena da scontare.
Il 15 Agosto del 1982, con modalità non del tutto chiare, i Carabinieri raggiunsero il Vinci nel suo rifugio nell’imolese, in un cascinale di proprieta’ di tale Francesco Calamosca che a lui ed al nipote Antonio aveva offerto protezione. Il giorno dopo l’arresto, piu’ precisamente il 16 Agosto, i magistrati, in cerca di elementi d’accusa piu’ solidi, riconvocarono Natalino Mele, il bimbo testimone del delitto del 1968, che ormai adulto smentì quanto sostenuto nel processo del 1970, riproponendo la versione del non aver visto nulla quella notte a Signa e dell’essere arrivato a casa del suo salvatore con le proprie gambe. Un altra “debacle” da cui pero’ si uscira’ in breve, visto l’ennesimo voltafaccia di Stefano Mele.
Concretizzatisi i sospetti sul Vinci, Stefano Mele decise, il 7 Settembre, di cambiare nuovamente versione, tornando a quella che voleva Francesco Vinci esecutore ed ideatore dell’omicidio del 68 e lui semplice gregario. Il 22 Settembre, la nuova “richiamata di correo” venne sigillata in un ennesimo confronto tra accusato e accusatore. Questa volta l’accusatore riusci’ a ribattere le controdeduzioni del suo antagonista, una “chiamata di correo” che ora, con la pistola tornata a sparare, risulto’ assai piu’ convincente di quanto non lo fosse stata nel 1968.
Nell’inverno dell’82, i dubbi sull’aver davvero risolto il caso rimanevano forti, ma passata la primavera e la prima parte dell’estate senza che si verificasse un nuovo delitto, gli inquirenti pensarono di esser approdati finalmente alla soluzione definitiva.
Nell’aprile dell’83, il giudice Tricomi passò il testimone al collega Mario Rotella, che sembrava destinato al ruolo di semplice notaio del risultato del suo predecessore, salvo forse dover verificare l’ultima suggestiva ipotesi uscita sulla stampa a Maggio dello stesso anno: quella che voleva Francesco Vinci esecutore materiale di delitti commissionatigli da un medico empolese, lo stesso che avrebbe avuto tra i suoi clienti non solo il Vinci ma addirittura lo sfortunato autista di ambulanze arrestato dopo il delitto di Scandicci. . Quell’ipotesi sensazionalistica durò sui giornali giusto il tempo di un mattino, affondata probabilmente dalla palese inconsistenza dei pur approfonditi accertamenti, salvo poi riproporsi 15 anni dopo sotto una veste completamente rinnovata…
Le porte del carcere sembravano sempre piu’ saldamente chiuse dietro le spalle di Francesco Vinci, fin quando una chiave forgiata con il metallo di 7 proiettili e 4 bossoli non si materializzò accanto ai cadaveri di due giovani tedeschi, ritrovati in uno spiazzo sulla via di Giogoli il 10 Settembre del 1983… era un nuovo duplice omicidio del mostro di Firenze!
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