di Paolo Cochi, Alessandro Feri, Master Evo
Dopo il delitto di Giogoli del settembre 1983, la divergenza tra Procura ed Ufficio del Giudice Istruttore cominciò a trasformarsi in rottura vera e propria. Così, quando quest’ultimo nel gennaio 1984 decise di proseguire su quella pista arrestando altri due personaggi coinvolti marginalmente nell’inchiesta del ‘68, Pietro Mucciarini e Giovanni Mele, in Procura già si era fatta largo l’idea di ricominciare da capo tutta l’inchiesta.
Intanto, proprio nel gennaio ‘84, un altro delitto, nel comune di Lucca (quartiere Sant’Alessio), alimentava la paura del mostro. Due giovani amanti erano stati uccisi all’interno della loro auto di notte in prossimità di un corso d’acqua chiamato Serchio. La pistola era una calibro 22, ma i bossoli (non di marca Winchester serie H) non erano stati sparati dall’arma del mostro; inoltre non c’era stato alcun vilipendio sui cadaveri. L’assassino di Lucca, mai individuato, aveva preso il borsellino nella borsa della vittima femminile, particolare rilevante che farebbe pensare che il movente dell’omicidio fosse economico e non maniacale. Questo delitto era poi avvenuto in inverno, stagione nella quale il mostro non ha mai ucciso nel territorio fiorentino. Tuttavia, nonostante questo omicidio presentasse queste importanti differenze con i delitti “classici” del mostro, sarebbe sbagliato liquidare a priori il delitto di Lucca come sicuramente non commesso dal mostro di Firenze.
Innanzitutto la dinamica del delitto di Sant’Alessio rispecchia il modus operandi del mostro nell’aggressione delle vittime: l’assassino di Lucca spara da un vetro anteriore, facendo centro su entrambi i ragazzi appartati con buona mira. Il possibile movente “di denaro” per una somma non elevata (per quanto più che plausibile) mal si concilia con una dinamica omicidiaria di questo tipo. L’avvocato-scrittore Nino Filastò, indiscutibile figura di riferimento per chiunque tratti di mostro di Firenze, ritiene che il delitto di Lucca fu commesso dalla solita persona che uccise le coppiette nell’ “hinterland campagnolo” fiorentino. Perché allora il mostro ucciderebbe “fuori stagione”, fuori Firenze, senza escindere e con un’altra arma? Per dare un messaggio ben preciso, secondo Filastò. A Lucca infatti il mostro ucciderebbe appositamente il 21 gennaio 1984, 5 giorni prima dell’arresto di G.Mele – Mucciarini come “coppia” di mostri di Firenze. Il serial killer fiorentino, che secondo Filastò è un personaggio “in divisa” in grado persino di conoscere gli sviluppi investigativi sul caso prima della stampa, vorrebbe dunque dare un segnale di presenza, comunicando agli inquirenti un messaggio di questo tipo: “E’ me che dovete prendere, non i sardi che conoscevano le vittime del ’68, né tantomeno un fornaio senese come Mucciarini. Conosco le vostre mosse, posso uccidere anche con un’altra arma, dunque non vi è utile accanirvi nella ricerca di una calibro 22 che i sardi non hanno neanche mai avuto.”
Ecco perché il mostro ucciderebbe fuori stagione, ecco perché userebbe un’altra pistola. Come spiegazione alternativa, la scelta dell’arma diversa potrebbe poi anche significare una volontà del killer di non firmarsi come “mostro di Firenze”, se è vero che per lui la “territorialità” dei suoi delitti è importantissima, forse parte integrante della sua “firma”. Oppure è un caso che gli otto duplici omicidi del mostro avvengono tutti nella provincia di Firenze, molti a pochi kilometri di distanza, ma ciascuno in un comune diverso?
L’ipotesi di Filastò sul delitto di Lucca è poderosa e ben congeniata, ma propone forse un mostro troppo criptico ed enigmatico. Davvero poi, nel gennaio 1984 a Lucca, il mostro si sarebbe lasciato sfuggire un’occasione così propizia per compiere le escissioni dopo i fallimenti (chissà se più o meno voluti) del 1982 e del 1983? Insomma, il dibattito sull’attribuire il delitto di Lucca al mostro o meno rimane aperto e come di consueto sta al lettore scegliere quale ipotesi sposare.
Ad ogni modo, nonostante serpeggiasse la paura e l’incertezza anche tra gli inquirenti, il delitto di Lucca venne presto messo da parte e chi indagava sul mostro, continuò ancora sulla stessa pista, ovvero quella dei sardi che “orbitavano” attorno al delitto di Signa del 1968. Il giudice istruttore Mario Rotella, che da poco tempo aveva sostituito Vincenzo Tricomi, pensò che il delitto dei ragazzi tedeschi del 1983, per il quale c’era Francesco Vinci in carcere, fosse stato compiuto da uno o più complici per scagionarlo, e che “l’errore” dei due ragazzi maschi servisse per evitare che il complice dovesse eseguire quelle operazioni mostruose inconcepibili per un criminale “normale”. L’idea del complice che vuole scarcerare Francesco Vinci cadrà inesorabilmente con l’omicidio di Vicchio dell’84, poiché costui si trovava in carcere anche per quel successivo delitto. Per la procura il discorso era più semplice: il mostro aveva davvero confuso la capigliatura bionda di Rush per quella di una ragazza; i bossoli mancanti probabilmente erano finiti tra i souvenir di qualche sciacallo e non era praticabile l’ipotesi che a Giogoli avessero sparato due pistole invece che una, teoria già allora “in voga” ma che non trova alcun riscontro oggettivo.
Anche se Francesco Vinci era in procinto di venire scagionato dall’accusa di essere il mostro, il giudice Rotella non si diede per vinto ma non riuscì ad identificare qualcuno che potesse calarsi nei panni del possibile complice né tra i compagni di scorribande del sardo, né tra i familiari che del resto, a parte il giovane nipote Antonio, con l’uomo non avevano rapporti poi così stretti ed “affettuosi”. Rotella tornò quindi a bussare alla porta di Stefano Mele per vedere se questi gli potesse fornire qualche nuovo indizio. Sebbene dalle parole dell’ometto non venne fuori nulla di sensato, qualcosa di prezioso sembrò invece sbucare dalle sue tasche, o almeno così credette il giudice. Durante quel colloquio dal portafogli del Mele era saltato fuori un bigliettino scritto in un pessimo italiano, da cui traspariva uno strano interessamento per le dichiarazione di Stefano Mele sul delitto di Signa. Il bigliettino recitava cosi’:
RIFERIMENTO DI NATALE riguaRDO
LO ZIO PIETO
Che avesti FATO il nome doppo
SCONTATA LA PENA
COME RisulTA DA ESAME Ballistico
dei colpi sparati
Quell’italiano sgangherato, scritto alternando maiuscole e minuscole, era stato compilato dalla mano di Giovanni Mele, fratello di Stefano, probabilmente il giorno in cui sui giornali dell’82 era apparsa la clamorosa notizia del collegamento col delitto del ’68. Evidentemente l’uomo aveva voluto ricordare al fratello cosa dire per evitare che i sospetti prendessero la direzione del clan, e in particolare si era preoccupato di togliere le castagne dal fuoco al cognato, Piero Mucciarini, il cui nome era comparso durante una delle innumerevoli audizioni del piccolo Natalino Mele.
E in effetti Stefano Mele quell’indicazione l’aveva data, anche correttamente visto che riferì di 8 colpi pur sbagliando il finestrino da cui erano stati sparati. Quel bigliettino, insieme ad alcune intercettazioni telefoniche ed ambientali, convinse il magistrato che a commettere l’omicidio del’68 fosse stato il clan dei Mele. La famiglia Mele avrebbe pertanto agito poiché stufa dei continui “colpi di testa” della Locci (“spendacciona” e dai facili costumi) e delle continue umiliazioni a cui la famiglia era sottoposta a causa del suo modo di trattare il marito.
Durante la conferenza stampa in cui si annunciava la scarcerazione di Francesco Vinci, il dottor Rotella sorprese tutta la platea di giornalisti dichiarando che da quel momento erano formalmente indagati per i delitti Giovanni Mele e Piero Mucciarini. I mostri quindi erano due. Per sostenere il mandato d’arresto furono anche illustrate le risultanze di una perquisizione al Giovanni Mele, sulla cui auto, una fiat 128, era stato trovato quello che fu definito un vero e proprio kit da Mostro, composto da coltelli, corde, stracci e liquido per detergersi le mani. A dire il vero nulla di quegli oggetti recava la minima traccia dell’uso in uno dei delitti, ma fu sufficiente perché i giornalisti per il momento non si facessero troppe domande.
In carcere Mele e Mucciarini cominciarono ad accusarsi l’un l’altro, con il Mele che ammise di aver scritto quel biglietto per proteggere il cognato. Le indagini andavano man mano verso una direzione che poi si rivelò una “pista buia”. La Pm Dr.ssa Silvia Della Monica lasciò l’inchiesta per occuparsi d’altro, sicuramente a ciò contribuì anche la divergenza d’opinioni interna agli inquirenti.
Come era successo già nei delitti precedenti finirono sulle pagine dei giornali le foto dei “mostri”. Il primo fu Enzo Spalletti, l’autista della misericordia accusato di reticenza ma sospettato di essere l’assassino, poi dal delitto successivo, fu il turno di Francesco Vinci, anche lui scagionato da un nuovo delitto ed infine il Mele e Mucciarini.
Per poco più di sei mesi i fiorentini tirano un sospiro di sollievo: il “ bi-mostro” era in carcere! Tutto ciò infatti durò fino alla sera della domenica del 29 di luglio, quando nei pressi di Vicchio nel Mugello accadde un’agghiacciante e terribile nuovo duplice omicidio del Mostro di Firenze!
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