La strage di via Caravaggio: le piste investigative (seconda parte)

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di Daniele Spisso direzione@calasandra.it

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Una pista verosimile inizia invece a prendere forma quando gli investigatori acquisiscono informazioni su un episodio che si è verificato verso l’estate del 1975, pochi mesi prima della strage. E che riguarda Gemma Cenname, la seconda moglie di Domenico Santangelo.

Gemma Cenname risultò essere la proprietaria di un capannone che si trovava in una zona di campagna nei pressi di Capua (Napoli), a non molta distanza dal suo paese d’origine del casertano, Camigliano. Il capannone in questione fu  affittato ad un tizio che si era presentato ai Santangelo come un ingegnere chimico e che ne aveva fatto richiesta per installarvi un laboratorio nel quale effettuare esperimenti. Ad un certo punto, l’ingegnere smise di corrispondere l’affitto e non si fece più vivo. I Santangelo si recarono di persona nel capannone per dare un’occhiata: non trovarono apparecchiature di laboratorio per esperimenti chimici ma delle brandine.

La sua vera identità saltò fuori agli inizi del 1976, quando la polizia scoprì che nel dicembre del 1975, un mese dopo la strage, l’uomo era stato arrestato in Calabria per una rapina: si trattava di Annunziato Turro, una persona coinvolta in vicende di droga e che non era affatto un ingegnere chimico. Un suo recapito telefonico era stato trovato nell’appartamento di via Caravaggio. Annunziato Turro fu ascoltato tre volte dagli investigatori (26 febbraio, 1 e 2 marzo 1976) ma ogni volta si rifiutò di fornire spiegazioni sull’episodio del capannone.

Gli inquirenti fecero poi un grave errore: non confrontarono le sue impronte digitali con quelle (che non appartenevano alle vittime) rinvenute dalla scientifica su una bottiglia di brandy e su una di whisky che erano poggiate su un mobile-radio dello studio di Domenico Santangelo (la stanza dove il Santangelo si intrattenne con l’assassino la sera del massacro e dove fu aggredito dopo una discussione apparentemente tranquilla e dopo che l’omicida aveva chiacchierato con lui bevendo e fumando).

Non furono fatti neanche accertamenti per stabilire che numero di scarpe aveva il Turro (l’assassino portava il 42, considerando le tracce lasciate sul luogo del delitto) e se fumava sigarette Gitanes senza filtro (l’assassino lasciò i mozziconi di questo tipo di sigarette nell’appartamento). Non si sa se portava gli occhiali (nel salotto furono trovati frammenti di vetro compatibili con occhiali da vista rotti, forse dell’assassino).

Negli ultimi tempi, il clima in casa Santangelo si era fatto un po’ teso. Gemma Cenname aveva fittato una cassetta di sicurezza presso l’agenzia 18 del Banco di Napoli e, assieme ad un suo amico, si era recata lì depositando titoli e gioielli. E pare che volesse portar via dall’appartamento anche l’argenteria e la biancheria di maggior valore.

E poi c’è un indizio abbastanza inquietante: il 28 ottobre 1975, il giorno prima della strage, Angela fu interpellata da un suo collega di lavoro (all’Inam di via Winspeare a Napoli) su eventuali progetti futuri di matrimonio. Angela rispose: “Ma che nozze d’Egitto! morirò scannata. Dico sul serio, poi vedrete. C’è un ingegnere là…”.

Un ingegnere. A chi si riferiva Angela?: al personaggio che si era spacciato per un ingegnere chimico e che un mese dopo la strage finirà in carcere per rapina, rivelandosi essere un pregiudicato coinvolto in vicende di droga? Il capannone in cui erano state trovate delle brandine a cosa era servito? era stato adibito a covo di latitanti o a un posto per nasconderci dei sequestrati? I Santangelo avevano capito tutto ed erano entrati in un gioco più grande di loro?

La pista-Turro è stata ritenuta attendibile dalla Corte d’Assise d’Appello di Potenza nella sentenza del 9 gennaio 1984 confermata in Cassazione il 18 marzo 1985 che assolse con formula piena Domenico Zarrelli. Ma non è la sola possibile. CONTINUA…

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